Buen Camino, la recensione del film: Checco Zalone tra a padri, figlie e satira satira
CinemaCon Buen Camino Checco Zalone e Gennaro Nunziante tornano al cinema con una commedia natalizia solo in apparenza rassicurante. Tra un padre assente, una figlia in fuga sul Cammino di Santiago e una prostata infiammata trasformata in canzone-manifesto, il film usa il family movie per continuare a fare satira sull’Italia di oggi. Una storia semplice che, proprio nella sua elementarità, riesce a porre domande scomode su paternità, coscienza e responsabilità
ridere è sempre stato un gesto politico
Nel 1988, durante un incontro con gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, Marcello Mastroianni ricordava come il cinema italiano fosse stato, più di ogni altro, profondamente politico. Non perché schierato o militante, ma perché popolare. Perché capace di sbeffeggiare ministri, istituzioni e ipocrisie molto più efficacemente di qualsiasi comizio. La commedia all’italiana, diceva Mastroianni, aveva raccontato il potere ridendogli in faccia. Ed era per questo che il nostro cinema era stato amato anche all’estero.
Guardando Buen Camino, al cinema dal 25 dicembre, viene naturale collocare Checco Zalone dentro questa linea di continuità. Non come nostalgico, né come moralista, ma come ultima mutazione possibile di quella tradizione. In un’epoca di visioni brevi, di generazioni abituate a scorrere contenuti e poco inclini alle visioni lunghe, Zalone continua a fare ciò che il cinema popolare ha sempre fatto: far ridere per poter dire qualcosa.
Il successo come motore dell’industria
Zalone non ha mai nascosto l’importanza degli incassi. Lo ribadisce anche in conferenza stampa, con una franchezza rara nel cinema italiano. Non è cinismo, ma consapevolezza storica: per decenni i grandi successi della commedia hanno finanziato il cinema d’autore, i film più rischiosi, quelli meno immediatamente redditizi. Un circolo virtuoso — e talvolta vizioso — che ha tenuto in piedi l’industria.
Buen Camino nasce anche da questa lucidità. Non ambisce a essere un film “alto”, né un trattato morale. Vuole funzionare
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Un protagonista che non sa (e non vuole) fare nulla
Il Checco di Buen Camino è un uomo che non ha mai dovuto imparare a fare niente. I soldi li ha ereditati dal padre, che ha fatto fortuna producendo divani. Lui se ne vanta apertamente: non sa lavorare, non sa fare nulla, non ne sente il bisogno. Vive circondato da lusso, yacht, servitù, modella messicana al fianco, amici a scrocco.
Per il suo cinquantesimo compleanno si fa persino costruire una piramide egizia in giardino, monumento definitivo a un ego che non ha più bisogno di giustificarsi. Ignora quanti siano i continenti, è convinto che Città del Messico non sia una capitale, non sa chi sia Hemingway e chiama la figlia Cristal in onore di una marca di champagne. Non è stupidità. Dal piunto di vista del protagonista si tratta di un privilegio.
Il corpo che presenta il conto
Non a caso, il film si apre con una visita dall’urologo spagnolo. Anulare infilato dove non batte il sole e una sentenza che suona come una gag ma anche come una dichiarazione poetica: l’età adulta comincia a cinquant’anni. Prima ancora della coscienza, è il corpo a ribellarsi.
La Prostata Enflamada, la canzone che attraversa e chiude Buen Camino, non è un semplice tormentone comico. È il cuore ideologico del film. Il corpo maschile che tradisce, la virilità che si sgonfia, il dolore che diventa filastrocca demenziale. La consapevolezza arriva dopo, se arriva.
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Il Cammino di Santiago come sabotaggio
Il Cammino di Santiago non è mai davvero spirituale. È fisico, sporco, faticoso, continuamente sabotato. Checco lo affronta portandosi dietro il suo mondo: vini pregiati spacciati per vino del contadino, cosce di pata negra che piovono come se niente fosse, una logica da resort applicata al pellegrinaggio.
Il viaggio con la figlia diventa così un dispositivo narrativo elementare — un padre e una figlia che non si conoscono — ma proprio per questo efficace. Buen Camino è una storia semplice, e non è affatto un male.
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Le battute intelligentemente scorrette
Lungo il cammino arrivano le battute più scomode: Gaza, l’11 settembre, Schindler’s List, pellegrini ossessionati dalla gerontofilia. Battute destinate a far discutere, ma il punto non è mai il tema. È sempre chi le pronuncia.
Quelle frasi appartengono a un uomo ricco, inconsapevole, protetto dal proprio status. Sono il prodotto della sua miseria spirituale. Buen Camino non chiede certo allo spettatore di essere d’accordo: chiede di ridere. E, ridendo, di riconoscersi. Perché alla fine la vis comica mostra, attraverso il riso, ciò che normalmente preferiamo nascondere.
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Il videoclip finale: la verità del corpo
A chiarire definitivamente la natura di Buen Camino arriva il videoclip che chiude il film, costruito attorno a La Prostata Enflamada. Qui Zalone si smarca dal racconto e lo espone apertamente come maschera: diventa Joaqui Cortzion, canta il dolore fisico, la disfunzione, l’umiliazione del corpo maschile che non risponde più ai comandi.
Accanto a lui, Martina Miliddi come “chica” introduce un controcampo corporeo e sensuale che non consola né giudica: danza, attraversa, accompagna. È un momento volutamente pop e sgangherato che rompe l’illusione narrativa e ribadisce il senso profondo del film: non c’è redenzione, c’è accettazione della fragilità
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Il fool e le domande
Il finale non offre soluzioni né pacificazioni. Si balla sull’abisso. Se qualcosa è cambiato, non è perché il protagonista ha imparato una lezione, ma perché ha attraversato il proprio limite. La prostata infiammata resta, le coscienze forse anche.
Buen Camino racconta molto bene il presente. Racconta un’Italia che ride, si scandalizza, si indigna e poi torna esattamente com’era prima.
Come nella grande tradizione della commedia italiana, il comico non fornisce risposte. Pone domande. Il fool racconta il mondo ridendone, ballando sull’orlo dell’abisso. Anche — e soprattutto — dove non batte il sole.