Predator: Badlands, recensione del film di Dan Trachtenberg con Elle Fanning protagonista

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Predator: Badlands arriva al cinema in Italia dal 6 novembre, , firmato da Dan Trachtenberg, il regista che con Prey ha reinventato la saga.
Nel nuovo capitolo, il mostro più celebre della fantascienza si trasforma in un eroe vulnerabile e malinconico. Sul pianeta Genna, tra tempeste di sabbia e creature letali, il giovane Yautja Dek scopre l’empatia accanto a Thia, androide interpretata da Elle Fanning. Tra azione, ironia e poesia visiva, Predator: Badlands riporta la saga a nuova vita

Un nuovo inizio per il mito del Predator

C’è qualcosa di sorprendentemente umano in Predator: Badlands.
Dan Trachtenberg, dopo aver rigenerato la saga con Prey, spinge ancora più in là il confine dell’immaginazione: ribalta il punto di vista e racconta il mondo dalla parte del cacciatore.
Non c’è più un commando armato nella giungla, ma un alieno giovane, spaesato, quasi tenero, che cerca un senso in un universo ostile.

Il suo nome è Dek (interpretato dal neozelandese Dimitrius Schuster-Koloamatangi): un Yautja considerato debole dal suo clan, costretto all’esilio su Genna, pianeta letale dove ogni fiore è un’arma e ogni respiro può uccidere.
Lì incontrerà Thia, un androide mutilato e irresistibilmente logorroico — interpretato da Elle Fanning, che dona al film un’anima luminosa, quasi umana.

Da questa improbabile alleanza nasce un racconto di sopravvivenza e riconoscimento reciproco, un viaggio nel deserto della solitudine per scoprire che anche i mostri possono provare compassione.

Gli Yautja non sono preda di nessuno”

"Gli Yautja non sono preda di nessuno. Non sono amici di nessuno. Sono predatori di tutti."

Così recita la legge primordiale di una specie costruita sulla violenza e sull’orgoglio.
Parole pesanti come macigni, scolpite nel codice genetico di creature alte oltre due metri, con sangue bioluminescente color lime e pelle rugosa come quella di un rettile.
Eppure — suggerisce Trachtenberg — anche i Predator hanno cominciato da piccoli.

L’idea, eretica nel cinema di fantascienza, è che il futuro non sia scritto: le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, e il clan non è una condanna.
La famiglia te la puoi scegliere, e la forza può nascere dall’unione dei diversi.
Nel mondo di Badlands, l’antico motto “nessun uomo è un’isola” vale anche per i robot e per gli extraterrestri.

Dek e Thia sono la prova vivente che due diversità, sommate, generano armonia.
Un Predator e un androide diventano alleati, e forse amici, in un film che parla di empatia travestendosi da action galattico.

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Predator: Badlands, il nuovo trailer del franchise

Un Predator che somiglia più a noi

Trachtenberg reinventa la mitologia Yautja con cura quasi antropologica.
Per la prima volta, assistiamo ai rituali, al linguaggio (ricreato dal linguista Britton Watkins, già autore del Na’vi di Avatar) e alla cultura di una specie che il cinema aveva sempre ridotto a minaccia.
Dek è il primo Predator dotato di voce, e le sue parole — gutturali, primordiali, ma commoventi — sono sottotitolate, come se la lingua aliena si piegasse finalmente al bisogno di comunicare.

La performance di Schuster-Koloamatangi è fisica e introspettiva insieme: il suo corpo è corazza e ferita.
La sua caccia al mostro Kalisk diventa un rito iniziatico, un modo per riscattarsi dal disprezzo del padre e dalla condanna del clan.
Ma ciò che scopre, nel cuore radioattivo di Genna, è qualcosa che nessuna arma può conquistare: la fragilità.

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Predator: Badlands, il nuovo trailer del film con Elle Fanning

Elle Fanning, la voce della coscienza

Elle Fanning è il cuore pulsante del film.
La sua Thia, creazione della sinistra Weyland-Yutani Corporation, è una “mezza donna meccanica” piena di ironia e stupore.
Come un C-3PO contaminato da malinconia e curiosità, accompagna Dek non solo come guida, ma come specchio emotivo.

Con il suo sguardo infantile e la sua ironia disarmante, Thia trasforma il film da survival fantascientifico a favola filosofica.
Dietro la maschera del metallo, Fanning fa trapelare emozioni autentiche, e ogni battuta è una crepa che lascia filtrare luce.

Non a caso, Badlands è anche una riflessione sulla memoria e sull’identità artificiale.
Come il computer “Mother” del Nostromo, anche qui l’intelligenza sintetica ha una voce, ma questa volta compassionevole e imprevedibile.
Thia è, in fondo, ciò che i Predator non hanno mai avuto: un’anima.

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Predator: Badlands, il trailer del film con Elle Fanning

Un universo di citazioni e metamorfosi

Pur ambientato in un pianeta mai visto, Badlands vibra di echi cinefili.
Trachtenberg mescola Star Wars e Alien, Mad Max e Shadow of the Colossus, fino a lambire la sensibilità di Terrence Malick e Frank Frazetta.
La Nuova Zelanda diventa una frontiera cosmica, fatta di canyon lavici e dune nere: un mondo primordiale dove il mito torna a respirare.

Tra gli easter egg, non manca un tocco ironico per i fan più attenti: nella nave di Dek spicca il cranio di un Harvester, creatura di Independence Day, come trofeo di una caccia dimenticata.
Un frammento di citazione che dichiara il gioco: Badlands appartiene a un universo espanso, ma mantiene la propria voce.

La forma dell’empatia

Il film si muove come un poema visivo tra esplosioni e silenzi.
Le creature digitali di Wētā FX convivono con la fotografia organica di Jeff Cutter, che cattura la luce naturale con la grazia di un western spirituale.
La colonna sonora di Sarah Schachner e Benjamin Wallfisch fonde percussioni tribali e sintetizzatori, dando al film un battito costante, quasi cardiaco.

Il regista alterna momenti di puro spettacolo — Dek contro il Kalisk, in una danza di fuoco e sabbia — a pause di intimità tra i due protagonisti.
Nel loro dialogo si percepisce l’evoluzione del genere stesso: Predator: Badlands smette di essere un film di caccia e diventa una parabola sulla vulnerabilità.
Il mostro non spaventa più, ci somiglia.

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il futuro non è scritto

Quasi quarant’anni dopo il film originale di John McTiernan, Predator cambia pelle.
Badlands non è un reboot né un sequel, ma un gesto d’autore travestito da blockbuster.
Trachtenberg non glorifica la violenza, la disarma.
Mostra che anche nel corpo di un assassino può germogliare la pietà.

In questo universo di sabbia e clorofilla, l’assenzio del sangue Yautja diventa simbolo di purificazione.
Il verde, colore del pericolo, diventa quello della rinascita.

È per questo che il film merita un brindisi, e il mio drink ideale è il Yautja Camouflage:
gin, assenzio, basilico e tonic, un sorso verde come la pelle del Predator e luminoso come la sua nuova coscienza.
Un cocktail che brucia, poi consola.
Come Predator: Badlands, è un rito di passaggio: dalla caccia alla comprensione.

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