Portobello di Marco Bellocchio, Enzo Tortora tra successo e ingiustizia. La recensione

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Alla Mostra di Venezia arrivano fuori concorso i primi due episodi della serie tv HBO Original che ripercorre il dramma del celebre conduttore televisivo travolto da un clamoroso errore giudiziario negli anni ’80. Con Fabrizio Gifuni in una prova intensa e un cast corale, la regia intreccia memoria storica e tragedia personale, trasformando la parabola di un uomo innocente in un racconto universale di giustizia negata e memoria civile

C’è un’immagine che resta incisa nella memoria collettiva come una ferita: Enzo Tortora ammanettato, scortato dai carabinieri, insultato da una folla che fino a pochi giorni prima lo applaudiva. È il 17 giugno 1983, e l’Italia entra in una delle sue pagine più buie. Con Portobello, presentata fuori concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, Marco Bellocchio (L'INTERVISTA A SKY TG24) trasforma quella cicatrice in racconto, riportando alla luce l’odissea di un uomo innocente, simbolo di una nazione che prima incorona e poi divora i suoi idoli. Alla Mostra del cinema di Venezia sono stati proiettati solo i primi due episodi, ma bastano per intuire la potenza di un’opera che promette di farsi epopea civile.

Il prologo

“Nei primi anni ’80 l’Italia è un Paese in trasformazione, la società diventa più moderna, consumista e mediatica. Le grandi organizzazioni criminali concentrano le loro attività nel traffico internazionale di stupefacenti. Lo Stato le combatte coraggiosamente a prezzo della vita di molti leali servitori”.

Così si apre la serie. È un preludio che ha la forza di un requiem civile: l’Italia della modernità consumista e televisiva si scontra con la ferocia della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, che insanguina le strade di Napoli e non solo. Dentro questo scenario contraddittorio, fatto di luci televisive e ombre criminali, si staglia la figura luminosa di Enzo Tortora, “uno degli uomini più popolari d’Italia”, capace di trasformare il piccolo schermo in un rito collettivo.

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La liturgia del tubo catodico

Bellocchio ancora una volta si dimostra un Maestro autentico. L’inizio della serie è emblematico: famiglie agli antipodi per censo, età e provenienza geografica, tutte raccolte davanti al televisore. È una liturgia pagana che trasforma lo schermo in altare nazionale. Potentissima la prima inquadratura con le maschere, tra cui spicca quella perturbante di Pulcinella: simbolo antico, popolare e inquietante, che diventa presagio visivo del teatro di varia umanità che Portobello portava nelle case italiane.

Non era solo intrattenimento: era un mercato dell’anima. Persone comuni mostravano invenzioni strampalate, cercavano amici perduti, denunciavano piccole ingiustizie quotidiane. Correva il gennaio 1978 quando un tranviere milanese, Piero Diacono, presentò nel programma un progetto dettagliato per abbattere il monte Turchino in Liguria, così da far circolare meglio l’aria sulla Pianura Padana e dissolvere la nebbia. Oggi ci sembra surreale, ma allora appariva come un’idea degna di essere ascoltata. Era un’Italia senza cellulari, internet e social, e la televisione era davvero lo specchio della nazione. Flaiano lo aveva profetizzato nei Taccuini del marziano: “Fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione”.

Il coro tragico: Musella, Bobulova, Maggiora Vergano

Intorno a lui, un coro tragico di personaggi. Lino Musella, sulfureo ed efficacissimo, interpreta Giovanni Pandico, il “pazzo” che con le sue accuse trascina Tortora nel baratro. Barbora Bobulova veste i panni della sorella Anna, presenza silenziosa e devota, che diventa sostegno ostinato. Romana Maggiora Vergano, già protagonista a Venezia con La valle dei sorrisi, interpreta Francesca Scopelliti: la giovane compagna che riceve dal carcere lettere intrise di amore e disperazione. Nelle parole di Tortora — “cicciotta”, “domina”, soprannomi teneri e ironici — si intrecciano resistenza e fragilità, affidamento e paura.

E ci sono anche i dettagli che diventano destino: i centrini in tessuto ricamati da un detenuto che finiscono per alimentare il “caso”, piccoli oggetti che si trasformano in detonatori di tragedia.

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Una scrittura stratificata

La sceneggiatura, firmata da Bellocchio con Stefano Bises, Giordana Mari e Peppe Fiore, non si limita a raccontare il processo. È un affresco dell’Italia degli anni ’80, tra nascita delle tv private, fine delle grandi ideologie e avvento di una società sempre più spettacolare. In questo paesaggio, Tortora appare come un corpo estraneo: un uomo libero, difficile da collocare, che non apparteneva a nessuna chiesa politica o culturale.

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La regia: rigore e poesia

Bellocchio dirige con la precisione dello storico e l’inquietudine del poeta. La fotografia di Francesco Di Giacomo alterna bagliori televisivi e ombre carcerarie, il montaggio di Francesca Calvelli modula il ritmo come una sinfonia, le musiche di Teho Teardo amplificano il senso elegiaco. Non c’è enfasi retorica: ci sono silenzi, dettagli, sguardi che mostrano la crudeltà dell’assurdo.

Dal successo alla via crucis (nei primi due episodi)

I due episodi presentati a Venezia bastano per mostrare la parabola dall’apice al baratro: l’uomo applaudito da milioni di italiani, nominato commendatore da Pertini, diventa in pochi mesi il capro espiatorio di un’Italia che voleva un colpevole. Bellocchio evita il sensazionalismo mediatico e sceglie la dimensione intima: l’inizio del calvario, lo stupore dell’innocente che non capisce come sia possibile precipitare in un incubo. È solo l’inizio della via crucis che la serie racconterà, ma già si avverte la forza di un dramma universale.

Portobello come metafora

Il programma televisivo stesso diventa metafora: da un lato mercato dei sogni, delle invenzioni e delle denunce popolari, dall’altro arena di condanna collettiva. L’Italia che prima rideva davanti al pappagallo che non parlava, ora si accanisce contro chi lo faceva parlare. È il paradosso crudele di un Paese che dà voce agli ultimi e poi condanna chi quella voce gliel’ha concessa.

Una memoria civile

Portobello è prima di tutto un atto di memoria civile. Ricorda che Enzo Tortora fu condannato senza prove, che la sua via crucis non fu solo personale ma collettiva: uno specchio in cui l’Italia vide il volto feroce della giustizia e della comunicazione di massa. La storia di Tortora è monito e ferita: ci dice che chiunque, se non protetto da padrini e appartenenze, può cadere.

La dignità della caduta

Con Portobello, Bellocchio restituisce dignità a un uomo travolto e dimenticato. Venezia ha applaudito i primi due episodi come l’inizio di un viaggio che promette di restare impresso. Perché la grandezza non sta nel successo, ma nella capacità di resistere anche quando tutto sembra perduto.

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