Father Mother Sister Brother di Jarmusch vince Leone d'oro, un film tra silenzi e misteri

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

La pellicola che ha vinto il Leone d'oro come miglior film segna il ritorno del regista con un’opera poetica e radicale che intreccia silenzi, memorie e misteri familiari. In tre episodi ambientati tra New Jersey, Dublino e Parigi, Adam Driver, Charlotte Rampling, Cate Blanchett, Vicky Krieps, Indya Moore e Luka Sabbat incarnano padri, madri, fratelli e sorelle sospesi tra orologi falsi, skater al rallentatore, brindisi impossibili e un tempo che scorre senza mai lasciarsi decifrare

Si può fare un brindisi con l’acqua? Con il tè? Con il caffè? Probabilmente non lo sapremo mai. Father Mother Sister Brother apre con domande che non prevedono alcuna risposta. È il cinema di Jarmusch che comunica attraverso un silenzio assordante e assurdo, specchio del mondo in cui viviamo. Forse quell’acqua che scorre sullo schermo è avvelenata, forse contiene cocaina, fentanil, medicine o illusioni. Ma quello che sappiamo è che tutto scorre — panta rei, figlio di Eraclito — come in questo film diviso in tre episodi, ognuno un tassello di una genealogia misteriosa.

Episodio I: Father

Nel primo segmento, ambientato nel New Jersey, Adam Driver, insieme alla sorella (Mayim Bialik) incontra la figura paterna interpretata da un inarrivabile e indecifrabile Tom Waits: personaggi che sembrano emergere da un universo parallelo, dove il padre non è mai quello che sembra. La casa diventa un teatro di menzogne e rivelazioni sospese, un microcosmo che fa riecheggiare Coffee and Cigarettes. Il tempo, come in quell’opera cult, si trasforma in rito.

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Episodio II: Mother

Il secondo episodio ci porta a Dublino, dove Charlotte Rampling interpreta una madre segnata da ferite invisibili. Accanto a lei, due figlie diversissime eppure speculari: Cate Blanchett, qui timida e nerd, e Vicky Krieps, coi capelli colorati e l’animo da bugiarda patologica. In quella cena imbarazzata e imbarazzante, il rosso non è più passione ma segno di distanza. “Il tempo vola”, dice Vicky, ma lo spettatore sente che invece non passa mai. È un teatro dell’assurdo che mette in scena i tic e le crepe della famiglia, con un’ironia che si fa lama sottile.

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Episodio III: Brother and Sister

Infine, Parigi. L’ultimo episodio vede protagonisti Indya Moore e Luka Sabbat nei panni di due gemelli orfani. I genitori sono morti in un misterioso incidente, e il lutto si riverbera nei loro corpi. Lui, perso nei microdosi di funghetti contro il logorio della vita moderna; lei, splendida in hot pants e collant, capace di percepire nel proprio corpo il dolore del fratello. Qui la famiglia diventa telepatia, condivisione di sensazioni, e allo stesso tempo ferita insanabile.

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Orologi falsi e skater al rallentatore

Come un filo rosso, un Rolex tarocco attraversa tutti e tre gli episodi. Simbolo del tempo che non scorre, che si inceppa, che si piega a una logica assurda. Lo stesso accade con l’acqua e con gli skater: numi tutelari al rallentatore, figure che si ripetono e si specchiano, ricordandoci che il quotidiano è sempre più misterioso del fantastico. È una “schidionata di anni” dopo Coffee and Cigarettes: ancora una volta Jarmusch regala il mistero del quotidiano, ma ora lo fa mettendo al centro la famiglia.

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Jarmusch e la sua poetica

Father Mother Sister Brother dialoga con tutta la filmografia di Jim Jarmusch. Dal minimalismo poetico di Paterson all’ironica elegia di Only Lovers Left Alive, il regista ha sempre cercato di raccontare l’assurdo della vita quotidiana. Qui porta questa ricerca nel cuore della famiglia, trasformando la genealogia in palcoscenico esistenziale. Come in Coffee and Cigarettes, i dialoghi sono fatti di pause e silenzi, ma con una differenza sostanziale: stavolta il non detto non è solo ironia, è ferita che brucia, memoria che pesa, dolore che non si lascia nominare.

Il tempo come personaggio

Il tempo, in Father Mother Sister Brother, non è uno sfondo neutro: è il vero protagonista. Si piega, si ferma, si dilata. Il Rolex tarocco, le frasi ripetute, i brindisi impossibili diventano simboli di un tempo che smette di essere lineare per diventare circolare, ossessivo, claustrofobico. Non è più il tempo della Storia, ma quello delle relazioni intime, delle cicatrici che non guariscono. Un tempo che inganna e insieme custodisce: perché i legami di sangue non scompaiono mai davvero, restano come fantasmi.

La colonna sonora: Spooky e il mistero

La musica, come sempre nel cinema di Jarmusch, ha un ruolo fondamentale. Qui Spooky diventa colonna sonora e commento ironico, quasi un personaggio che sussurra da dietro le quinte. Ogni episodio trova il suo ritmo musicale, ma sempre con un’eco malinconica che accompagna lo spettatore verso l’inconoscibile. La colonna sonora non serve a chiudere i sensi, ma ad aprirli: è un invito a percepire, a sentire quello che sfugge all’immagine.

Il mistero del quotidiano

Ogni episodio funziona come un frammento di un mosaico più ampio. I rapporti familiari, lungi dall’essere decifrabili, si rivelano enigmi mai del tutto risolti. Lo zio evocato in ciascun episodio — con una battuta che cambia continuamente — diventa una metafora: mutando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. La famiglia resta il primo luogo dell’identità, ma anche il più inafferrabile dei misteri.

Se fosse un cocktail

Se questo film fosse un cocktail, sarebbe un Gin Tonic annacquato da una pioggia improvvisa: semplice, apparentemente trasparente, ma con un retrogusto che brucia e sorprende. Un brindisi fragile e necessario, come i legami di sangue.

 cinema come resistenza poetica

Alla fine, resta l’immagine di un brindisi impossibile. Con acqua, tè o caffè, non importa. Perché in Father Mother Sister Brother ciò che conta non è la risposta, ma la domanda. La famiglia viene prima di tutto, eppure resterà sempre un mistero. Jarmusch ci ricorda che il cinema è ancora capace di dare forma al silenzio, di trasformare il dolore in canto, di resistere con la poesia al logorio del tempo.

È un’opera che lascia addosso una cicatrice luminosa: un film che non consola, ma accompagna. E ci ricorda che, anche quando mutiamo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia: restiamo sempre figli, fratelli, sorelle. 

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