La Bête, Léa Seydoux tra l'amore e l'A.I. La recensione del film in concorso a Venezia 80

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Ambientato in un mondo distopico, Bertrand Bonello firma un enigmatico e visionario melò dalle venature thriller. Basato sulla novella di Henry James, “The Beast in the Jungle”,  Un lungometraggio che spazia tra il 1910, il 2012 e il 2044

We fade to gray, cantavano I Visage nel 1980, Una canzone simbolo della new Wave e capolavoro del genere New Romantic. E non a caso il brano si palesa in una delle sequenze più suggestivi in La Bête, (The Beast in inglese, La Bestia in italiano), un film in cui sono le emozioni al comando, mentre lo spettatore viene trasformato in altre, sfumate e parallele realtà. Chiudete, quindi la logica nel cassetto. Concedetele il sonno del giusto per 2 ore e 25, e godetevi il viaggio. Perché il lungometraggio firmato da Bertrand Bonello, regista, sceneggiatore e compositore francese, autore di Le Pornographe (2001), L'Apollonide - Souvenirs de la maison close (20111) Zombi Child (2019) e Coma (2022), nonché Attore in Titane, è un appagante trip mentale, fisico, emotivo e sensoriale. In concorso all’80.ma Mostra del cinema di Venezia, un’opera che spiazza, intriga e sorprende.

La Bête, la trama del film

Siamo nel 2044. L’intelligenza artificiale regna sovrana e nessuno pare dispiacersene. Le emozioni sono bandite, non ci sono segni di ribellione  contro questo futuro scarno e asettico, solo in apparenza sereno. Niente algida ipertecnologica o social media, le metropoli sono svuotate, talvolta si manifesta per le strade un cervo o un piccione. Gabrielle, nella speranza di liberarsi del grumo emozionale che alberga ancora nella sua mente, decide di purificare il suo DNA attraverso una elaborata terapia. La ragazza torna a rivivere le sue vite precedenti e perduta nel passato rincontra il suo grande amore, ma la percezione di un’imminente catastrofe rischia di far fallire il trattamento.

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 La Bête,  Léa Seydou straordinaria protagonista

Forse è vero che l’ansia ci mantiene vivi. Il rischio, in fondo, è un fucinatore di adrenalina. E tra paura e amore, non è più gratificante optare sempre per il secondo. La gioia di vie (Joie de vivre per dirla alla Emir Zola) passa attraverso il pericolo, l’imperfezione, il dubbio). Ed è di questo che ci parla La Bête, Come direbbe Rainer Fassbinder. “Se hai l’amore in corpo non serve giocare a Flipper. L'amore esige una tensione tale che non c'è più bisogno di rivaleggiare con una macchina, con la quale del resto non si può che perdere.” E a giocare questa partita, destinata a perpetui game over, è Léa Seydoux, L’ultima, abbacinante Bond Girl torna per la terza volta a lavorare con Bertrand Bonello. Ma in questa opera risulta la protagonista assoluta. Un’attrice volitiva e proteiforme, Assolutamente credibile nella sua performance quando interpreta una pianista nella Parigi del 1910 sconvolta da un’epocale alluvione e pronuncia frasi tratte dal racconto di Henry James, sia quando veste i panni di una aspirante attrice francese in trasferta a Los Angeles, nella speranza di un ingaggio tra un incipiente terremoto e la necessità, solo presunta di un intervento di chirurgia plastica. Un’autentica star a suo agio in entrambi i mondi, capace di circoscrivere in uno sguardo tutto l’inquietudine, il dolore, la disperazione di ancora confida nell’umano, nel troppo umano.

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 La Bête, tra David Lynch e il sogno

Tra un finale che rimanda al David Lynch di Twin Peaks o ai doppelganger perturbanti di Mullholland Drive, La Bete vince la partita e si porta a casa l’intero piatto. L’attore inglese George MacKay, subentrato a Gaspard Ulliel scomparso durante la preparazione del film funziona sia in marsina, papillon e coppa di champagne in mano, sia come riottoso aspirante serial killer ancora vergine all’età di 30 anni. Ma la forza del lungometraggio risiede proprio nel raccontare per immagini assai potenti la Bestia, ossia quella paura di amare, di abbandonarsi, di essere feriti. In fondo, l’imperfezione non è una peculiarità dell’essere umani? La nostra imprevedibile fragilità ci consente, spesso e volentieri di risultare, stupendi, originali e creativi rispetto a qualsivoglia intelligenza artificiale. Siamo fatti di spirito, sangue e carne: Che l’algoritmo se ne faccia una ragione.

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