Il film di Aaron Sorkin dopo essere stao premiato con 1 Golden Globe e 1 SAG Awards è uno delle pellicole candidate alla vittoria finale, forte anche delle 6 nomination, tra cui quello come miglior film e migliore attore non protagonista a Sacha Baron Cohen
Un film che mette insieme l'attualità politica, la ricostruzione storica e il classico cinema hollywoodiano di ambientazione tribunalizia: sbarcato su Netflix a ottobre, Il processo ai Chicago 7, nel suo riuscito tentativo di accontentare pubblici e generazioni diverse, è uno dei titoli di maggior successo della stagione 2020-2021 e forte di 6 candidature agli Oscar (miglior film, miglior montaggio a Alan Baumgarten, migliore attore non protagonista a Sacha Baron Cohen, migliore canzone a Celeste, Daniel Pemberton, migliore fotografia a Phedon Papamichael, migliore sceneggiatura originale a Aaron Sorkin).
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La firma, prestigiosissima, è quella del grande Aaron Sorkin, sceneggiatore dal curriculum lungo così che ormai quasi trent'anni fa aveva scritto un'altra delle vette del genere processuale, Codice d'onore (1992) con Tom Cruise, Demi Moore e un indimenticabile Jack Nicholson che ringhiava in faccia all'avvocato dell'accusa Cruise in un memorabile confronto finale. Ma nei tre decenni successivi Sorkin ha spaziato con successo dal genere sportivo (il bellissimo Moneyball) al biografico (Steve Jobs), fino a una serie tv di grande successo come West Wing e un film che cattura lo spirito di una generazione come The Social Network di David Fincher, e si è infine cimentato con successo nella regia con Molly's Game con Jessica Chastain, Idris Elba e Kevin Costner. La sua seconda esperienza dietro la cinepresa è sorkiniana al mille per mille e si avvale della supervisione di Steven Spielberg, che cullava un progetto sui Chicago 7 già dal 2007, sognando di farlo uscire a ridosso della campagna delle Presidenziali 2008 poi vinte da Barack Obama.
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Dodici anni dopo l'America è profondamente cambiata e Hollywood sente particolarmente la scadenza elettorale del prossimo 3 novembre: sono moltissimi i titoli politici degli ultimi mesi, dal rabbioso Da 5 Bloods di Spike Lee alla miniserie The Comey Rule, in onda su Sky, che si concentra sulla figura dell'ex capo dell'FBI James Comey licenziato da Trump. Il processo ai Chicago 7 racconta la storia del processo-farsa ai danni di sette attivisti contro la guerra in Vietnam, coinvolti in duri scontri con la polizia a margine della Convention Democratica svoltasi a Chicago nell'agosto del 1968. Esponenti di anime diverse della sinistra americana, oltranzisti, moderati o cavalli sciolti come gli hippie sintetizzati in un brillantissimo Sacha Baron Cohen, tutti rappresentati da un avvocato (interpretato da Mark Rylance) che è il classico underdog dei film hollywoodiani: atteggiamento e prossemica da perdente, si rivelerà invece arguto e brillante, fino a sfidare l'ordine precostituito rappresentato dall'odioso giudice Julius Hoffman (Frank Langella) e avere la meglio sui legali scelti dal governo a rappresentare l'accusa, tra cui spicca Joseph Gordon-Levitt nella parte di un giovane avvocato che accetta l'incarico più per spirito di servizio che per vera convinzione.
Insomma, ruoli archetipici di una certa America arguta, brillante e democratica che, come sappiamo, non sempre trova diretta corrispondenza nella realtà. La sceneggiatura di Sorkin è come sempre acuta e ricca di dialoghi scintillanti (merita una menzione la lite tra l'hippie Abbie e il moderato Tom la sera prima dell'interrogatorio), anche se qualcuno ha lamentato una scarsa attinenza alla verità processuale in nome dello spettacolo e dell'intrattenimento (a proposito, notevolissimo anche il cammeo – sole due scene – di Michael Keaton). Certamente non può essere casuale la data d'uscita, ulteriore conferma di una categoria particolarmente coinvolta nel confronto Trump-Biden, vissuto con una militanza che nel cinema americano rimanda al periodo impegnato degli anni Settanta: ma se quel cinema era riflesso di un'America buia e paranoica non meno di quella attuale, gli autori di oggi sanno proporre una varietà molto più ampia di stili e registri. Paradossalmente, va a finire che Hollywood dovrà ringraziare Donald Trump...