Lenskeeper – Alle porte dell’abisso, la recensione del film horror di Luca Canale B.
Spettacolo
Con Lenskeeper – Alle porte dell’abisso, film di chiusura del Torino Underground Cinefest 2025, Luca Canale B. firma un horror radicale che trasforma Torino in Arkham, tra cliniche oscure e riti blasfemi. Tra Lucio Fulci, Clive Barker e Lovecraft, un viaggio negli abissi della paura: bisturi che aprono varchi, trapianti mostruosi, inquisitori medievali e figure arcane. Un horror radicale che scuote e inquieta, portando lo spettatore oltre la soglia del visibile
Recensione di Lenskeeper – Alle porte dell’abisso
«Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto».
Con questa frase di H. P. Lovecraft si apre Lenskeeper – Alle porte dell’abisso, come se lo schermo fosse una tavola ouija che prende vita. Luca Canale B., già autore disturbante di Onirica e H010N, torna con un film che non vuole intrattenere ma lacerare, non consolazione ma trauma. Un’opera che si muove tra splatter alchemico e orrore cosmico, sospesa tra Lucio Fulci e Clive Barker, e che trova la sua radice più nera nell’immaginario lovecraftiano
Il rito della chiusura al TUC
Il film è stato presentato in anteprima come proiezione di chiusura del Torino Underground Cinefest 2025, nella serata del 4 ottobre al CineTeatro Baretti. Una scelta simbolica: Lenskeeper è l’incarnazione stessa dello spirito estremo e indipendente che anima la rassegna torinese, giunta alla sua dodicesima edizione. Non un semplice titolo da festival, ma un atto di fede nell’horror radicale, capace di scuotere il pubblico e di lasciare cicatrici.
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Torino come Arkham
La città sabauda, con i suoi portici e i suoi corridoi sotterranei, viene trasfigurata in Arkham. Non un luogo geografico, ma uno spazio mentale: un “non tempo” dove convivono elementi moderni e retrò, creando una geografia allucinata. La clinica oculistica che domina il film non è un luogo di cura, ma un avamposto dell’incubo: qui il dottor Elias Graves (Paolo Mazzini) conduce esperimenti innominabili, convinto che l’occhio non sia solo strumento della vista ma chiave per penetrare dimensioni proibite
Fulci aveva fatto dell’occhio la sua ossessione: trafitto, dilatato, negato. Impossibile dimenticare Olga Karlatos in Zombie 2, trascinata da uno zombi verso una scheggia di legno, in una sequenza interminabile di controcampi che culmina con il primissimo piano della perforazione del bulbo oculare. Un atto crudele e poetico insieme, emblema di un cinema che osava spingersi oltre il limite. Canale B. raccoglie quell’eredità e la rilancia, trasformando lo sguardo in condanna. Ogni palpebra che si apre diventa porta, ogni pupilla spalancata un varco sull’indicibile.
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Una donna senza memoria e la clinica del terrore
La storia si costruisce attorno a Jane Doe (Diamara Ferrero), giovane senza memoria, trovata insanguinata dopo un massacro. Il suo racconto fratturato è l’unica via d’accesso alla verità, un mosaico instabile che si ricompone in un interrogatorio claustrofobico. Al suo fianco troviamo Marcus (Riccardo Livermore), Rachel (Lara Leggero) e Lilith Vane (Adele Pisani), figure che oscillano tra vittime, testimoni e presenze perturbanti.
Il dottor Graves, interpretato da Mazzini con voce roca e magnetica, incarna il medico-demiurgo: uomo che seziona corpi non per curare, ma per innestare creature dentro la carne. I bisturi aprono non solo tessuti, ma varchi verso altri mondi. Le operazioni diventano riti di passaggio, trapianti che innestano il mostruoso, contaminazioni tra vita e morte.
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Servi oscuri, inquisitori e lingue arcane
Lenskeeper non si limita a rielaborare il gotico urbano. La sua forza è l’apertura a un universo tentacolare, dove convivono figure mitologiche e folkloriche: i servi oscuri, il popolo dei boschi, la dea Ecate. In una sequenza visivamente devastante, Santa Lucia e il Grande Inquisitore (Diego Casale) appaiono in una Siracusa del 1436 infestata da fiamme inquisitoriali e liturgie di occhi strappati.
Il film parla in lingue arcane e incomprensibili, generando un orrore che non sta nell’esplicito, ma nell’intraducibile. il tenente Mason (Greta Squillace) e l'ìispettore Carter( Eugenio Gradabosco) – veri e propri detective dell’impossibile – citano Il colore venuto dallo spazio e Ligeia, in un gioco metaletterario che fa dialogare Lovecraft con Poe, cinema e letteratura, incubo e memoria.
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Splatter alchemico e sensoriale
Le scene splatter non sono mai compiaciute: Canale B. dosa il sangue con precisione alchemica. Ogni squarcio, ogni mutilazione, diventa linguaggio. La fotografia di Juan F. Rolando (nuovo dettaglio emerso dalla cartella stampa) restituisce non solo l’immagine, ma anche la percezione sensoriale: pare di sentire la bruma malevola, la nebbia ocra che ricopre le strade, persino l’odore dolciastro e nausebondo della decomposizione.
Il sound design di Yakumo Kobe amplifica questa immersione: un tappeto sonoro ipnotico, opprimente, che rende la sala cinematografica una camera anecoica infestata da sussurri. A completare l’esperienza, le musiche originali di Massimiliano Zaccone, pulsazione cardiaca che accompagna lo spettatore come un destino ineluttabile.
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Fulci, Barker, Lovecraft
Se Onirica richiamava Dario Argento, Lenskeeper guarda altrove: a Lucio Fulci, per lo sguardo che condanna; a Clive Barker, per la carne come tempio e prigione; a Lovecraft, per l’abisso che si spalanca e che nessuna ragione può colmare.
Eppure, questo film non è mai mera citazione. È un’opera che rifiuta le mode, che non cerca la scorciatoia del jumpscare, che non patina l’orrore per renderlo digeribile. È cinema che osa, che vuole farsi rito. Lo stesso Canale B. lo dichiara: “Non vi è conforto né redenzione. Il mio cinema non vuole intrattenere, ma lasciare cicatrici nell’anima di chi osa guardare”
Occhi e Nabokov
L’occhio è il vero protagonista. Non solo organo, ma simbolo: lente per osservare l’abisso che ci guarda. Qui la felicità non è consolazione ma delirio, versione morbosa delle parole di Nabokov: «La felicità sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri, nell’essere un grande occhio vitreo, leggermente iniettato di sangue».
Lenskeeper ci condanna a essere occhio, a non chiudere le palpebre, a fissare l’orrore senza distogliere lo sguardo.
L’omaggio a Claudio Lattanzi
Il film si chiude con una dedica che risuona come un epitaffio:
“A Claudio, mentore maestro e amico.”
Un omaggio di Luca Canale B. al regista Claudio Lattanzi, che agli esordi lo incoraggiò a non mollare, a credere nel proprio cinema estremo. Un gesto di riconoscenza e gratitudine che suggella l’opera: non solo film, ma testamento spirituale, abbraccio di un allievo al suo maestro
Il cocktail dell’abisso
Ogni opera di Canale B. chiama un rito alcolico. Lenskeeper è un film da accompagnare con il Bloody Arkham Sour: Vermouth torinese scuro come le notti di Arkham, un goccio di assenzio per evocare lingue arcane, succo di melograno come il colore venuto dallo spazio, limone bruciato come le fiamme inquisitoriali di Siracusa. Da bere fissando il bicchiere come un occhio vitreo, finché non si capisce che la vera ebbrezza non è l’alcol, ma l’abisso che ci osserva dal fondo del vetro.
Un varco che lascia il segno
Lenskeeper – Alle porte dell’abisso è un horror che non si dimentica. Un film sensoriale, sporco, visionario. Una sinfonia di sangue e nebbia che restituisce all’horror italiano la sua vocazione estrema, in dialogo con la tradizione di Fulci e con l’orrore cosmico di Lovecraft.
Non è intrattenimento: è un varco. Non è spettacolo: è cicatrice. Presentato come film di chiusura del Torino Underground Cinefest 2025, Lenskeeper resta addosso come una ferita, lasciandoci la sensazione che un frammento di Arkham ci abbia seguito fuori dal cinema, pronto a sussurrare ancora, nell’ombra, il suo richiamo