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Neuralink, come funziona Telepathy: il primo chip impiantato in un cervello umano

Salute e Benessere
©Getty

Il chip, formato da 5 elementi, promette di essere in grado di rilevare i segnali cerebrali ed inviarli a un'interfaccia che li elabora consentendo a una persona di utilizzare un computer attraverso il proprio pensiero. Per collegare Telepathy al cervello è stato realizzato un robot in grado di applicare i fili dotati di elettrodi con estrema precisione

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Per la prima volta un chip di Neuralink è stato impiantato nel cervello di un essere umano, lo ha annunciato lo stesso Elon Musk, proprietario dell'azienda. L'obiettivo della sperimentazione è quello di aiutare alle persone con problemi neurologici e lesioni: il chip dovrebbe essere in grado di rilevare i segnali cerebrali ed inviarli a un'interfaccia che li elabora consentendo a una persona di utilizzare un computer, un telefono o altri dispositivi attraverso il proprio pensiero. "L'uso iniziale - ha poi affermato Musk - è per chi ha perso l'uso delle gambe. Immaginate se Stephen Hawking avesse potuto comunicare più velocemente". Ecco come funziona il chip chiamato Telepathy, come viene impiantato e cosa sapere sulla sperimentazione.

Come funziona Telepathy

Come detto, il primo chip di Neuralink prodotto si chiama Telepathy, questo impianto punta a connettere l'essere umano ad un computer. Il dispositivo, attraverso dei sensori, raccoglie i segnali cerebrali e li trasforma consentendo ad una persone di eseguire delle azioni su un computer. L'impianto è formato da cinque elementi: una capsula esterna realizzata in materiale biocompatibile, una batteria che può essere ricaricata, i microchip, che traducono i segnali cerebrali e li trasmettono ai dispositivi, e 24 fili dotati di 1024 elettrodi che vengono collegati al cervello.

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L'operazione per l'impianto

Per impiantare il chip e collegare i fili ultrasottili dotati di elettrodi è stato sviluppato un robot in grado di applicarli con estrema precisione. La testa del robot contiene sistemi ottici in grado di effettuare una Oct (optical coherence tomography) e un ago, più sottile di un capello umano, che inserisce e rilascia i fili con gli elettrodi. L'identità della persona che si è sottoposta al primo intervento non è nota, ma si ipotizza che possa essere qualcuno rimasto paralizzato a causa di una lesione alla colonna vertebrale. “I primi utenti saranno coloro che hanno perso l'uso degli arti”, ha fatto sapere Musk, mentre “le persone affette da tetraplegia dovuta a lesioni del midollo spinale cervicale o a sclerosi laterale amiotrofica (SLA) possono candidarsi” per sottoporsi alla sperimentazione, ha invece annunciato Neuralink.

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Gli scienziati: “Serve cautela”

Sul primo impianto del chip nel cervello di un essere umano non c'è al momento una pubblicazione scientifica e occorre quindi cautela prima di pensare ad applicazioni per la cura di malattie neurologiche, ha spiegato in una nota Paolo Maria Rossini, direttore del dipartimento di Neuroscienze e neuroriabilitazione dell'Irccs San Raffaele di Roma. "L'annuncio dell'impianto cerebrale su di un essere umano è interessante, ma l'entusiasmo che ha suscitato è per ora poco motivato", ha osservato Rossini. Al momento, "sappiamo solo che il paziente si sta riprendendo bene dall'intervento e che i contatti tra microelettrodi e neuroni sono funzionanti". Di conseguenza "le prossime giornate e settimane saranno determinanti per comprendere se e quanto questo tipo di approccio potrà dare le risposte paventate". Rilevando che "non è mai facile commentare una notizia scientifica che non sia stata pubblicata su una rivista di settore con tutte le informazioni e i dettagli del caso", Rossini dice che "numerosi tentativi precedenti sono stati fatti con un approccio simile da un punto di vista teorico".

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Le valutazioni sull'esperimento

Nell'esperimento della Neuralink "si dovrà verificare quante volte il comando inviato dal paziente viene interpretato in modo corretto dall'apparecchio e viene quindi eseguito con efficacia e quanti errori e di quale portata (anche in termini di rischio) esso compie – ha proseguito Rossini – Si dovrà verificare la durata della bontà del contatto nel tempo perché attorno alla punta degli elettrodi si crea una reazione fibrosa che ne diminuisce l'efficacia". Si dovrà anche "valutare poi il rischio di interferenze con le onde elettromagnetiche emesse da comuni apparecchiature e che riempiono oggi l'ambiente di una casa normale" e "verificare se la presenza di microelettrodi inseriti in corteccia induca una irritazione dei neuroni penetrati dagli elettrodi con relativo aumento del rischio di epilessia". Secondo Rossini "pensare già oggi di utilizzare questo tipo di approccio in casistiche estese e in patologie di grandi numeri come i pazienti colpiti da stroke, da Parkinson e addirittura da malattie psichiatriche è non solo molto prematuro, ma fuorviante perché induce speranze del tutto immotivate in malati e famiglie già troppo provati dalle loro condizioni".

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