Endometriosi e lavoro: quali tutele? Il parere delle esperte

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Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

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Abbiamo chiesto ad Aurora Notarianni dell'AGI (Avvocati giuslavoristi italiani) e a Denise Amerini dell’Area Stato sociale e Diritti della CGIL come intervenire

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Barbara, 44 anni, vive con una forma grave e invalidante di endometriosi. Nel 2022 ha speso più di 5mila euro tra terapie farmacologiche, integratori, visite, analisi cliniche. È disoccupata, nonostante la sua laurea in giurisprudenza, conseguita tra mille difficoltà negli anni più critici della malattia, e l’iscrizione al collocamento nell’elenco delle categorie protette. “I centri per l’impiego, soprattutto al Sud, sono inefficaci, mentre i concorsi non sono concepiti per persone che hanno problemi di salute. Negli ultimi tempi hanno solo inserito la possibilità di richiedere tempi supplementari durante l’esame. Quindi, se io, ad esempio, ho un'estrema urgenza di utilizzare il bagno durante una prova concorsuale nelle prime ore, cosa probabile visto che ho endometriosi anche intestinale e vescicale, vengo espulsa”. E il mercato del lavoro privato? “Non lo considero nemmeno, io sono fuori a priori per diversi motivi anche per quelle aziende che vantano una sensibilità maggiore verso le categorie fragili”.

 

Come lei, Sara, 36 anni: “Io sono arrivata all’apertura della partita IVA esausta dagli anni che mi lasciavo alle spalle: facevo Reggio-Parma tutti i giorni. Sono solo 30 km da pendolare, ma per anni percorrevo questa distanza con il terrore: avevo costantemente paura di dover andare al bagno e poi in ufficio stavo male”. Lo smartworking è guardato con sospetto. Con la fine della pandemia si è tornati al "mondo di prima". Finita l'emergenza, il telelavoro e la dad sono stati rapidamente accantonati: “Il lavoro da casa è uno strumento prezioso perché ci si può alzare in piedi quando si vuole e si ha maggiore libertà di movimento: stare sedute acutizza il dolore in alcune pazienti. Nella maggior parte dei casi vengono ignorate dai datori di lavoro le lettere di motivazione dello psicoterapeuta e del ginecologo che consigliano una forma mista di lavoro per la dipendente. Serve un intervento mirato”, ribadisce Sara.

Parola alle esperte

Sono almeno tre milioni le donne con diagnosi di endometriosi in Italia. Un esercito di studentesse e lavoratrici senza tutele, per cui è stato fatto ancora poco sul fronte legislativo e sindacale. Convivere con forme gravi di questa patologia significa spesso rinunce sul piano professionale, discriminazioni sul posto di lavoro, mancanza di riconoscimento da parte dei superiori e dei colleghi. Abbiamo chiesto ad Aurora Notarianni dell’AGI (Avvocati giuslavoristi italiani) e a Denise Amerini dell’Area Stato sociale e Diritti della CGIL come intervenire.

Il punto di vista degli avvocati

Per Aurora Notarianni, il punto nodale non è scrivere una nuova legge ma potenziare la contrattazione. “Dovremmo concentrarci sulle norme che già ci sono, dal Codice civile alle successive leggi sul lavoro femminile. Se non c’è una norma a livello di contrattazione collettiva o decentrata a cui appigliarsi, il sindacato non può fare molto, però il Responsabile della Salute e della sicurezza dei lavoratori sì. Si tratta di un presidio che c’è anche nello Statuto dei lavoratori. Anche quando la condizione di partenza è sfavorevole bisogna ricordare che, sebbene in un contratto già in essere ci siano pochi agganci normativi, resta la posizione individuale che non è priva di tutele”, spiega. L’avvocata Notarianni sottolinea l’importanza di affrontare la questione alla luce della specifica prestazione che si svolge: “una legge rischia di non rispondere alle esigenze inviduali, per rendere flessibile la prestazione e inserire l'alternativa dello smartworking in alcuni giorni del mese serve la contrattazione”.

 

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Il punto di vista del sindacato

Le lavoratrici con endometriosi denunciano una mancanza di attenzione da parte dei sindacati. “Negli ultimi anni il contesto di recessione, di crisi e inflazione e precarietà non ha aiutato, l’azione sindacale è stata complessa”, spiega Denise Amerini dell’Area stato sociale e diritti della CGIL. Il riconoscimento dei limiti dell’azione sindacale si accompagna a una presa di coscienza sul fenomeno: “Allo stato attuale le donne con endometriosi possono avere un certificato medico come qualsiasi lavoratore non cronico e questo non è sufficiente”, afferma Amerini. Il panorama è piuttosto sconfortante: “C’è ancora molta strada da fare per quanto riguarda la formazione dei Responsabili della Salute, che spesso non sono preparati a riconoscere malattie come l’endometriosi. C’è poi un problema più generale di declinazione al femminile della materia. Basti pensare che tutto ciò che ha a che fare con i dispositivi di protezione individuale è tarato su un maschio bianco di 40 anni: strumenti che non sono adeguati alla popolazione maschile nel suo complesso, figuriamoci a quella femminile e alle esigenze delle donne con endometriosi”. Per Amerini è necessario ripartire da un aggiornamento del Piano sulla salute di genere: “una revisione che dovrebbe tenere conto di malattie fino ad adesso ignorate e relegate in un angolo”.

Il Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro

Da un lato abbiamo i contratti collettivi nazionali al capitolo Salute che “permettono di stabilire norme che riguardano determinati gruppi di persone e poi ci sono quelli aziendali che agiscono sul luogo fisico e che si possono declinare in modo coerente con la popolazione specifica”, illustra. La contrattazione aziendale può dare risultati significativi: “innesca un'azione dal basso e in scala ridotta può ottenere ciò che a livello nazionale è ancora lontano”. “Le leggi” sottolinea Amerini “sono di sostegno alla contrattazione. Il D.Lgs 81/08 o Testo unico sulla sicurezza regola la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro è un grosso aiuto”. 

Le leggi

Amerini auspica un aggiornamento delle leggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro in un’ottica di genere e riguardo alle patologie che colpiscono le donne: "senza dimenticare una necessaria revisione dei LEA, i Livelli essenziali di assistenza, che hanno bisogno di essere potenziati per venire incontro alle necessità delle donne coprendo un maggior numero di prestazioni mediche e le terapie e per garantire un’uniformità territoriale", conclude. E continua: "Una donna del Sud riceve un trattamento diverso sotto vari punti di vista rispetto a una donna del Nord: l’autonomia differenziata renderebbe ancora più forti questi squilibri".

Far valere i propri diritti

Cosa fare dunque per far valere i propri diritti in assenza di un quadro legislativo e di una contrattazione ad hoc? “Innanzitutto, rivolgersi al proprio rappresentante aziendale per il contratto, alla propria Camera del lavoro, perché prima che si riescano a portare a compimento dei risultati, si possono sviluppare e istituzionalizzare buone pratiche attraverso il confronto e il dialogo. È importante parlare del problema, porlo all’attenzione”.

 

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