Narges Mohammadi, chi è l'attivista iraniana in carcere premiata col Nobel per la Pace
Mondo ©GettyVice presidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani, è stata imprigionata dalle autorità iraniane dal maggio 2016 e si trova ancora in cella. Cinquantun'anni, marito e figli costretti all'esilio in Francia, Mohammadi denuncia da dietro le sbarre le condizioni disumane dei detenuti in carceri come quello di Evin a Teheran, e gli abusi sessuali che subiscono le donne. Nel 2022 scrisse di nascosto un pezzo per il Nyt dopo il caso Masha Amini: "Più ci imprigionano, più diventiamo forti"
"Donna, vita, libertà": lo slogan gridato negli ultimi 12 mesi da migliaia di donne in tutto in mondo, da Teheran è arrivato a Oslo. Poco più di un anno dopo la morte di Masha Amini, diventata simbolo in tutto il mondo dell'oppressione in Iran, e a pochi giorni dal caso di Armita Geravand, in coma dopo il pestaggio da parte della polizia morale, il Nobel per la Pace 2023 va a una donna che ha fatto della sua vita una lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani: l'attivista Narges Mohammadi. Nata nel 1972 a Zanjan, vice presidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani e imprigionata dalle autorità iraniane dal maggio 2016, Mohammadi si trova ancora in prigione, nel carcere di Evin a Teheran. "La vittoria del Nobel evidenzia il coraggio delle donne iraniane" è il commento dell'Onu all'assegnazione del premio. Per la famiglia dell'attivista è un momento storico per la lotta per la libertà in Iran. "La situazione lì è molto pericolosa, gli attivisti possono perdere la vita", ha detto parlando all'emittente norvegese Nrk il fratello Hamidreza Mohammad, auspicando che un riconoscimento come il Nobel per la Pace possa rendere la vita degli attivisti in Iran più sicura.
Arrestata 13 volte, in carcere per "diffusione di propaganda"
Ex giornalista, da decenni in prima linea dentro e fuori le carceri iraniane, Mohammadi, 51 anni, sta scontando una pena detentiva di 31 anni in Iran ed è stata sottoposta a 154 frustate. Tredici le volte in cui è stata arrestata, cinque quelle in cui è stata condannata. Attualmente l'attivista, oggi 51enne, si trova in carcere per "diffusione di propaganda". Suo marito, un attivista politico, vive in esilio con i loro due figli. Nel 2009, Mohammadi è diventata vicepresidente del Centro per la difesa dei Diritti umani, fondata da Ebadi, la prima donna iraniana premio Nobel per la Pace. Ha difeso i prigionieri politici e di coscienza nei procedimenti giudiziari e si battuta contro la pena di morte in Iran. Arrestata di nuovo nel 2010 insieme ad altri attivisti, nel 2011 è stata condannata a 11 anni di carcere per aver "cospirato contro la sicurezza nazionale". L'anno successivo, dopo una paralisi muscolare, è stata rilasciata per problemi di salute: soffre di un disturbo neurologico che può provocare convulsioni, paralisi parziale temporanea e un'embolia polmonare.
La battaglia contro la "tortura bianca" dei detenuti
Nel maggio 2015 viene nuovamente imprigionata nel famigerato carcere di Evin a Teheran (noto per le frequenti denunce di violazione dei diritti umani e per incarcerare gli oppositori politici) dove è rimasta fino a dicembre 2019, quando è stata trasferita nella prigione di Zanjan, a circa 300 chilometri dalla capitale, dopo aver organizzato proteste contro le condizioni carcerarie e l'uccisione di centinaia di manifestanti nel cosiddetto "novembre di sangue" del 2019. Hanno fatto il giro del mondo le foto di lei quasi immobile nel letto, picchiata selvaggiamente dal direttore del carcere di Evin per le proteste organizzate pochi mesi prima. Dopo una reclusione durata cinque anni, è stata poi rilasciata nell'ottobre 2020. Finora arresti, condanne né le torture subite o le condizioni di salute precarie sono riuscite a fermarla. Tre anni fa, poco dopo un intervento al cuore, ha girato un documentario e scritto due libri proprio sulla tortura bianca che lede la sfera psicologica del detenuto. Nel 2021, insieme ad altri 85 attivisti ha avviato la campagna "White Torture" contro l'uso dell'isolamento nelle carceri iraniane. Ha avuto anche il coraggio di denunciare gli agenti dell'intelligence che l'hanno sottoposta a torture e altri maltrattamenti, strappandole brutalmente i capelli, ossessione misogina della Repubblica Islamica dell'Iran tanto che il taglio dei capelli delle donne in strada è diventato il simbolo delle proteste per la morte di Mahsa Amini.
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Un anno dopo l'omicidio di Mahsa Amini, tra proteste e repressione
Il marito e i due gemelli esiliati in Francia
Mohammadi è con il giornalista Taghi Rahmani, un politico dissidente che è stato incarcerato per 14 anni prima di essere costretto ad andare in esilio in Francia, dove vive con i loro gemelli che l'attivista non vede da anni. Il 12 aprile 2022, Mohammadi è dovuta tornare in carcere per scontare l'ennesima condanna a otto anni di detenzione per presunti crimini contro la sicurezza nazionale dell'Iran, dove, denuncia Amnesty International, le autorità carcerarie la tengono in condizioni crudeli e disumane. Nell'ottobre del 2022, un mese dopo la morte di Masha Amini, è stata condannata a 15 mesi di reclusione con l'accusa di "propaganda contro il sistema" per aver espresso il suo sostegno al diritto del popolo a manifestare.
L'articolo sul Nyt: "Più ci imprigionano, più diventiamo forti"
Detenuta con altre 300 donne a Evin, non smette di scrivere lettere e appelli per gli arresti fatti dopo la rivolta scoppiata a seguito dell'omicidio di Mahsa Amini.
In cella le è proibito ricevere chiamate e visite ma nel primo anniversario della morte di Mahsa è riuscita a far uscire di nascosto un articolo pubblicato dal New York Times dal titolo "The More They Lock Us Up, the Stronger We Become" ("Più ci imprigionano, più diventiamo forti"). Nel pezzo l'attivista racconta della sera in cui insieme alle sue compagne di cella nel reparto femminile della prigione di Evin a Teheran, ha visto un servizio televisivo sulla morte di Mahsa Amini. Mohammadi scrive che ognuna di loro usò il poco tempo a disposizione per le brevi telefonate per raccogliere informazioni all'esterno e scambiarsi le notizie a disposizione. "Eravamo chiuse lì dentro, ma ma abbiamo fatto quello che potevamo per alzare la voce contro il regime". "Sono stata incarcerata a Evin tre volte dal 2012 per il mio lavoro di difensore dei diritti umani, ma non ho mai visto così tante nuovi ingressi nel reparto femminile come negli ultimi cinque mesi", è la sua denuncia. Una voce, la sua, che non ha mai avuto intenzione di abbassare nonostante le torture subite: "Ciò che il governo potrebbe non capire è che più di noi rinchiudono, più diventiamo forti", scrive sul Nyt, spiegando che il morale tra i nuovi prigionieri era alto. "Tutti loro, non importa come sono stati arrestati, avevano una sola richiesta: rovesciare il regime della Repubblica Islamica".
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Il #MeToo iraniano: la battaglia contro le violenza in carcere
"Nella mia vita sono stata condannata a un totale di 25 anni, ma è la prima volta che scelgono la fustigazione, sarà una nuova esperienza", aveva detto Mohammadi in un raro momento di libertà nel giugno del 2021, intervistata dall'AGI tra i muri di casa sua, poco prima di tornare dietro le sbarre di Evin. Sulla violenza contro le donne, soprattutto sessuale, nelle prigioni iraniane, l'attivista aveva lanciato una battaglia sul social Clubhouse sulla scia di un #MeToo iraniano: in una room durata più di sei ore, con oltre 1.500 partecipanti, 15 donne avevano raccontato la loro esperienza di violenze sessuali dietro le sbarre. "Si tratta di un fatto inedito", aveva spiegato l'attivista: "dagli Anni '80 sono numerose le donne stuprate o molestate dai propri carcerieri, ma la maggior parte di loro ne parla solo una volta uscite dall'Iran. Il primo passo, però, è proprio condividere le proprie esperienze e renderle un tema nell'opinione pubblica, poi si deve denunciare e infine creare istituzioni civiche in grado di fare pressione sul governo, affinché cambi le leggi".
Il premio internazionale che non piacerà al regime
Una battaglia che prosegue, con o senza libertà. Mohammad continua a raccontare cosa sono costretti a subire in cella donne e oppositori. Anche lo scorso dicembre, infatti, ha scritto dal carcere per fornire alla Bbc dettagli strazianti su come le donne detenute durante le manifestazioni subissero abusi sessuali e fisici, e raccontato che le aggressioni sono diventate più comuni durante le proteste di massa innescate dalla morte di Amini. L'anno scorso Narges Mohammad è stata inclusa nella BBC 100 Women, lista di cento donne più influenti della Terra. Un potere che grazie al riconoscimento ricevuto oggi, inevitabilmente, cresce, amplificando la sua voce, ma aver ricevuto il premio per la pace più prestigioso del mondo le conferisce un livello di riconoscimento internazionale che non sarà accolto favorevolmente dal regime, che da anni critica duramente. Nel 2021 aveva previsto nuove proteste nell'Iran dell'allora neo eletto presidente Ebrahim Raisi: "Raisi ha vinto le presidenziali iraniane, in un voto pilotato e deragliato dal suo corso naturale, come attivista che ha perso tutto negli ultimi anni per le mie idee, non accetto il suo governo, perché è uno dei più gravi violatori dei diritti umani in Iran". Intanto, il regime degli ayatollah sta cercando in ogni modo di nascondere la verità sul caso della 16enne Armita Geravand, da domenica in coma dopo essere stata picchiata dalla sorveglianza della metropolitana di Teheran perché non indossava il velo. E il regime teme una nuova Mahsa Amini.