Israele: dal kibbutz ai grattacieli di Tel Aviv, l’attesa degli sfollati del Sud

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Rolla Scolari

Rolla Scolari

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I residenti delle comunità attaccate il 7 ottobre aspettano un accordo che liberi gli ostaggi, metta fine alla guerra a Gaza e li riporti nelle loro case. Il reportage

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Tel Aviv. I due condomini di oltre dieci piani si distinguono dall’architettura del resto del polveroso quartiere di Florentin, area di Tel Aviv luogo della cosiddetta gentrificazione dove sulla stessa via si trovano locali e bar alla moda, botteghe popolari, officine e gommisti. Qui da diversi mesi abita il 95 per cento dei 430 circa residenti del kibbutz Reim, comunità rurale a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza (GLI AGGIORNAMENTI LIVE SUL CONFLITTO). Dai campi del kibbutz, i 360 chilometri quadrati del piccolo territorio in cui vivono 2,4 milioni di palestinesi sono soltanto a pochi minuti di automobile. Il 7 ottobre oltre 70 terroristi del gruppo terroristico palestinese Hamas hanno attaccato Reim e gli altri villaggi israeliani vicini, bruciando le case, le parti comuni. Hanno ammazzato cinque residenti, trascinato quattro persone a Gaza, ostaggi da allora tutti liberati. Sul territorio del kibbutz si teneva in quelle ore il festival musicale in cui sono stati massacrati centinaia di civili.
 

Zohar Mizrahi, 51 anni, assistente sociale, quel giorno ha passato trenta ore nella stanza bunker della sua casa. Il marito agricoltore ha fatto la guardia per trenta ore fuori dalla porta, dopo aver scoperto che la serratura del rifugio era danneggiata. Oggi, l’uomo per mantenere i campi della comunità ora evacuata, fa avanti e indietro tra Reim e Tel Aviv, dove la maggior parte degli abitanti del kibbutz ora risiede, in quei due alti condomini che in nei primi giorni di ottobre erano ancora in costruzione, i piccoli appartamenti pronti per essere messi sul mercato dai prezzi stellari della città.  I proprietari invece di metterli in vendita hanno deciso di affittarli agli sfollati del Sud.

Gli abitanti di Reim hanno capito fin da subito che non sarebbero tornati presto nelle loro case, ci spiega dal balcone del suo nuovo appartamento Zohar, dove il trambusto della città arriva attutito.  “Una delle conseguenze del 7 ottobre – dice la donna – è che abbiamo perso fiducia nel governo e nell’esercito. Abbiamo realizzato di essere soli, di avere soltanto noi stessi. Poi, molti israeliani si sono fatti avanti, hanno offerto aiuto senza chiedere nulla in cambio. È stato commovente”.

I combattimenti devono finire

Ora, in questa comunità ricreata in verticale nel cuore di uno dei quartieri del divertimento della grande città, Zohar e gli altri abitanti del Reim attendono assieme di tornare nelle loro case, ma sanno che quel momento è ancora lontano: oltre il confine con Gaza si continua a combattere, una massiccia operazione israeliana nel Sud della Striscia sembra imminente, oltre 130 ostaggi – molti di loro sarebbero però morti - sono ancora nelle mani di Hamas o di altri gruppi armati, i morti tra i civili secondo fonti del ministero della Sanità locale controllato dal movimento islamista palestinese sarebbero quasi 35mila e la situazione umanitaria tra gli sfollati ammassati nel sud-ovest del piccolo territorio è ogni giorno più drammatica.

Per poter tornare alla vita di prima, in quel villaggio luogo di un attacco brutale e oggi così vicino ai combattimenti, deve cessare il conflitto. “In passato, quando sentivamo il suono dei combattimenti, pensavamo fosse un po’ spaventoso, ma era ok. Ora, quando sentiamo colpi di artiglieria, il rumore degli aerei o il suono delle sirene si innesca qualcosa di diverso: una realtà di trauma, di figli morti ammazzati. I combattimenti devono cessare, gli ostaggi devono essere liberati: queste sono le condizioni per il nostro ritorno”. 

Il senso di insicurezza

Il governo di Benjamin Netanyahu non ha però finora messo fine alla guerra, restituito sicurezza ai suoi cittadini, riportato a casa gli ostaggi, mentre nemmeno le minacce americane di bloccare le forniture militari allo storico alleato israeliano riescono a bloccare le intenzioni di un’incursione a Sud che metterebbe a rischio migliaia di civili palestinesi. E benché l’esecutivo israeliano e i suoi ministri si sforzino in queste settimane di assicurare alla popolazione che saranno in grado di restaurare un senso di sicurezza infranto, anche gli ultimi sondaggi in Israele raccontano una realtà diversa, e la consapevolezza dei residenti che ci vorrà molto tempo prima di sentirsi protetti, ci ha spiegato Anshel Pfeffer, corrispondente militare del quotidiano israeliano Haaretz.

Il trauma degli abitanti  

“Dal 7 ottobre Israele vive un trauma, da sette mesi questo trauma non è sparito, il senso di sicurezza delle persone è stato seriamente compromesso", dice Pfeffer. Parlo di persone ordinarie, non per forza residenti nelle aree vicino a Gaza, ma anche abitanti del centro di Israele. Ci vorranno anni per ricostruire quel senso di sicurezza, e non accadrà sicuramente con questo governo”.

D’altronde, il pensiero della popolazione in Israele non può che continuamente andare verso i combattimenti a Gaza, mentre le sirene che indicano il lancio di nuovi razzi suonano al Sud, i notiziari parlano da settimane di un possibile accordo tra Israele e Hamas che continua a sfumare e le città sono tappezzate di immagini dei 130 ostaggi ancora prigionieri. “Riportateli a casa”, è lo slogan che campeggia ovunque, illumina la piazza del teatro nazionale Habima di Tel Aviv, è scritto con le bombolette di spray sui muri dei molti cantieri della città, è evocato dai fiocchetti gialli che portano un po’ tutti, attaccati alle giacche, ai polsi, alle borse.

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La "piazza degli ostaggi"

La piazza di Tel Aviv rinominata piazza degli ostaggi, stretta tra il museo cittadino e la base militare quartier generale dell’esercito, è diventata luogo di pellegrinaggio e commemorazione, tra tende e monumenti commemorativi improvvisati, caffè shakerati e gruppi di preghiera. Ogni sabato sera migliaia di persone si ritrovano qui, a scandire i nomi di chi è ancora ostaggio, a protestare contro il governo, a chiedere un accordo che garantisca un cessate il fuoco per il ritorno dei sequestrati. E che avvenga in fretta: “Che almeno inizino a sedersi a un tavolo, per pensare ai dettagli in un secondo momento”, ci ha detto Daniel Lifshitz, giovane nipote di Yocheved, una dei primi israeliani liberati a ottobre da Hamas. Suo nonno, Oded, è invece ancora prigioniero. Ha 84 anni, secondo il nipote sarebbe l’ostaggio più anziano al mondo. “Mi aspetto che le parti si incontrino per negoziare la realizzazione di questo accordo e liberare gli ostaggi, almeno iniziare a liberare i 33 tra donne, bambini, anziani e malati di cui ha parlato Hamas e poi da qui si andrà alla seconda e terza fase: il cessate il fuoco, la fine della guerra, come volete chiamarlo – ci ha detto –. Occorre però liberare subito tutti gli ostaggi e fare il cessate il fuoco. Assieme. E per questo chiedo alle parti: accettate questo accordo. Non dipende soltanto dal governo israeliano. Oggi le sorti dell’accordo dipendono molto di più da Hamas. E la pressione internazionale deve andare avanti”.

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