Pakistan, la storia di Taha Siddiqui: giornalista dissidente in esilio

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Silvia Donnini

Silvia Donnini

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Come confermano i dati di Reporter Senza Frontiere, il giornalismo nel Paese asiatico è sottoposto a dura censura e pesante controllo da parte dello Stato. In occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, che si celebra ogni anno il 3 maggio, abbiamo parlato con Taha Siddiqui, reporter pakistano che da 6 anni vive in esilio a Parigi. "Al silenzio ho preferito lasciare il mio Paese da persona libera", ha detto a Sky TG24

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È il 10 gennaio 2018. Taha Siddiqui è a bordo di un taxi diretto all'aeroporto di Islamabad, in Pakistan: lo aspetta un volo per Londra, dove dovrà lavorare a un reportage. All'improvviso due auto lo accerchiano, lui scende dal veicolo e viene assalito da un gruppo di uomini armati. Lo picchiano e lo caricano su una delle due macchine, da cui Siddiqui riesce miracolosamente a fuggire. Da quel momento la sua vita cambia completamente. Minacciato per molti anni dalle autorità del Paese, che volevano sottoporlo – così come tanti altri giornalisti – a una rigida censura, sceglie di andare in esilio in Francia. “Allo stare zitto in Pakistan ho preferito essere libero in un altro Paese”, ha raccontato Siddiqui a Sky TG24. Secondo i dati di Reporter Senza Frontiere, il Paese asiatico è uno degli Stati più a rischio in termini di libertà di stampa, tanto che attualmente risulta al 152° posto, su 180, della classifica.

Corrispondente per varie testate come The New York Times, Guardian e Al Jazeera e vincitore del Prix Albert Londres nel 2014, considerato il “Pulitzer francese”, il giornalista, noto sopratutto per la sua critica nei confronti del sistema militare pakistano, è anche fondatore di Safe Newsroom, una piattaforma digitale che punta a dare voce alle storie censurate in Pakistan e in Asia meridionale. Oggi, a distanza di sei anni da quell'episodio, Taha Siddiqui vive ancora a Parigi e, qui, gestisce il suo Dissident Club, un caffè culturale che ogni settimana ospita dibattiti, conferenze ed esposizioni. La missione è sempre la stessa: difendere i diritti dei giornalisti.

Taha Sddiqui
Taha Siddiqui - ©Getty

Come descriverebbe lo stato del giornalismo in Pakistan prima del suo esilio?

La libertà di stampa in Pakistan si sta deteriorando sempre più con il passare degli anni. Un tempo si diceva che i giornalisti venivano uccisi, che i giornalisti venivano attaccati - io stesso sono stato attaccato. Ma da qualche anno a questa parte, quello che emerge è che il giornalismo è morto. Di fatto non esiste libertà di stampa nel Paese: tutti i media sono controllati dallo Stato. Giornali, canali televisivi, radio e addirittura web, tutto è pesantemente censurato e i giornalisti sono sottoposti a costanti minacce. Proprio per questo motivo, tra gli operatori dei media c'è una forte autocensura. Negli ultimi anni si è raggiunto un livello in cui lo Stato - e per Stato intendo soprattutto l'esercito pakistano perché è la forza dominante del Paese - non ha nemmeno più bisogno di imporre ai giornalisti cosa dire o cosa non dire, perché sono i giornalisti stessi ad aver paura di parlare di certi argomenti-tabù.

 

Cosa intende per tabù?

Tutto ciò che ha a che fare con l'esercito e con la religione. Questi sono i due argomenti principali. Per questo motivo, secondo un recente sondaggio, oltre il 90% dei giornalisti pakistani si autocensura. Tutto ciò è dimostrato dal fatto che nessuna delle storie pubblicate sulla stampa nazionale è un'inchiesta o un articolo che può sollevare domande o “sfidare” lo Stato. La maggior parte dell'informazione pakistana si basa, ormai, solo su una sorta di pubbliche relazioni - “Lui ha detto, lei ha detto” - piuttosto che su un giornalismo d'inchiesta.

 

A quali limitazioni sono sottoposti i giornalisti pakistani?

Esistono due tipologie di pressione sui giornalisti. La prima è la pressione esercitata sulle testate in cui si lavora, dunque sui proprietari, gli editori e i direttori in generale. La seconda è rappresentata dalle minacce rivolte direttamente ai giornalisti che lavorano sul campo. Per quanto riguarda la prima, la repressione alla direzione delle testate giornalistiche, di solito, avviene attraverso la coercizione finanziaria - “Non vi daremo più finanziamenti” - perché molti giornali, al giorno d'oggi, dipendono dalle sovvenzioni governative, dalle entrate dello Stato o dalla pubblicità, che è a sua volta controllata dallo Stato. Dunque se le autorità decidono di bloccare le entrate della vostra testata, non avrete più i soldi per gestirla. Lo Stato può inoltre bloccare la trasmissione televisiva di un canale di notizie e ostacolare i rifornimenti di un giornale stesso.

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E le minacce dirette ai giornalisti?

In questo caso la situazione è molto più grave. I reporter in Pakistan subiscono minacce dirette: dal rapimento al pestaggio, fino all'uccisione. Io stesso sono sopravvissuto a un rapimento e a un tentativo di assassinio. Conosco diversi giornalisti che sono stati attaccati e picchiati: alcuni di loro sono finiti in prigione, altri sono scomparsi. C'è anche la possibilità che in Pakistan tu sparisca, il che si chiama "sparizione forzata", perché nessuno effettivamente sa dove finisci.

Ma c'è anche un altro fattore che minaccia la stampa pakistana, ovvero gli attori non statali. Durante gli anni Duemila, si sono verificati attacchi diretti da parte dei terroristi, tra bombe piazzate nei luoghi in cui i reporter andavano a fare dei servizi, granate lanciate contro gli uffici e spari alle sedi delle testate. Negli ultimi vent'anni sono stati uccisi più di cento giornalisti in Pakistan. Tra questi anche l'americano Daniel Pearl del Wall Street Journal, assassinato nel 2002. Il suo caso è stato l'unico ad avere degli sviluppi, l'unico in cui alcuni dei responsabili sono stati puniti. Per tutti gli altri, soprattutto giornalisti pakistani, non sono mai stati scoperti o perseguiti penalmente i responsabili.

 

Quando ha iniziato a percepire che non era più al sicuro nel suo Paese?

Le minacce nei miei confronti sono iniziate dopo il mio trasferimento a Islamabad. Prima facevo il reporter nel sud del Paese, nella città di Karachi, poi ho lavorato a Lahore e infine ho avuto l'opportunità di trasferirmi nella capitale per lavorare a un servizio per la stampa estera. È stato allora che i militari mi hanno contattato dicendomi che dovevo incontrarli per discutere di alcune questioni importanti. Il generale con cui parlai mi disse che, prima di essere un giornalista, ero un pakistano e i miei doveri erano altri. Poi aggiunse che avrei dovuto mostrargli i miei reportage, prima di inviarli alle testate estere e pubblicarli. Io rifiutati, dicendo che il mio lavoro era indipendente. Così ricevetti numerose telefonate intimidatorie, visite nel mio ufficio, a casa mia. Anche i miei amici furono contattati e persino i miei datori di lavoro. Tutto questo è andato avanti per almeno sei, sette anni prima che venissi attaccato nel 2018.

 

Il 10 gennaio 2018 è sopravvissuto a un tentativo di rapimento e assassinio all'aeroporto di Islamabad...

Quel giorno stavo andando all'aeroporto della capitale, dove sarei dovuto salire su un volo diretto a Londra per un lavoro, quando all'improvviso il mio taxi è stato accerchiato da due auto, una davanti e una dietro. Sono sceso dal veicolo e ho chiesto che cosa stesse succedendo. Gli aggressori hanno iniziato a picchiarmi e a intimarmi di andare con loro. A quel punto ho capito che si trattava di un tentativo di rapimento organizzato e di assassinio. Lo definisco tale perché, nel caso in cui mi avessero portato via, sarei stato probabilmente ucciso. Dopo avermi pestato mi hanno caricato su una macchina. Per fortuna una delle portiere non era bloccata, così sono riuscito a scappare gettandomi dall'auto in corsa e precipitandomi dalla parte opposta della strada. Era come una scena di un film d'azione, ma per me era questione di vita o di morte. Dopo essere fuggito, sono riuscito a raggiungere una stazione di polizia e lì ho denunciato i militari, che per anni mi avevano minacciato. Successivamente sono stato contattato dal Ministero degli Interni del mio Paese, il quale mi disse che il governo non aveva nessun problema con me e il mio lavoro, ma i militari sì. E mi disse anche che in quel momento storico, quando non si sapeva ancora chi sarebbe salito al potere nei mesi a venire (era il 2018, anno in cui si svolsero le elezioni parlamentari per il rinnovo dell'Assemblea nazionale, ndr), non era sicuro di potermi proteggere. Poi aggiunse: “Il nostro consiglio, Taha, è di tacere. I militari sono troppo potenti, dovresti scusarti e abbassare la testa”. Io mi rifiutai. All'autocensura preferii lasciare il Pakistan e andare in esilio a Parigi perché in quegli anni lavoravo come corrispondente per France 24.

E a Parigi che cosa ha fatto?

La mia idea iniziale era quella di trascorrere un po' di tempo in Francia prima di fare ritorno in Pakistan. Ma una volta arrivato, sono stato informato dalle agenzie di intelligence occidentali, comprese quelle francesi e americane, che il mio nome era stato inserito nella lista nera e che se avessi fatto rientro nel mio Paese mi avrebbero ucciso. Mi hanno consigliato anche di non recarmi in nessun Paese “amico” del Pakistan in Medio Oriente, in Cina, in Turchia.

 

Come è cambiata la situazione della libertà di stampa in Pakistan negli ultimi anni?

La situazione della libertà di stampa in Pakistan è peggiorata da quando ho lasciato il Paese. Sempre più giornalisti mi contattano e mi dicono che ho fatto bene ad andarmene perché quello che ho lasciato non è più giornalismo. Prima minacciavano i giornalisti, talvolta li uccidevano. Adesso l'intero settore è completamente morto. Come si vede dall'Indice della libertà di stampa di Reporter senza Frontiere, il Pakistan scende in classifica ogni anno di più. Sempre più giornalisti abbandonano la professione e sempre più controllori statali censurano i media. Il Pakistan si sta avviando verso lo stesso modello di Cina, Corea del Nord, Iran o Afghanistan: Paesi in cui non esiste libertà di stampa.

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