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Il racconto di Giuditta, la cooperante di Gazzella rientrata in Italia da Gaza

Mondo
Emanuela Ambrosino

Emanuela Ambrosino

Proseguono le evacuazioni dei cittadini stranieri dalla Striscia di Gaza. Diciassette cittadini italiani hanno attraversato negli ultimi giorni il valico di Rafah. Alcuni cooperanti evacuati sono rientrati in Italia e tra di loro c’è Giuditta Brattini, operatrice dell’associazione Gazzella con 20 anni di esperienza nella Striscia. L'abbiamo incontrata nella sua casa di Verona e questo è il suo racconto

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Giuditta era arrivata a Gaza il 19 settembre per coordinare e monitorare le attività di alcune cliniche dentali rinnovate nella Striscia tra il 2020 e il 2022 dall'associazione Gazzella con cui collabora da oltre 20 anni. Avrebbe dovuto incontrare i bambini che vengono adottati a distanza dalle famiglie italiane. Era già il secondo viaggio a Gaza dall’inizio dell’anno. La Striscia, Giuditta, la conosce bene. Per vent'anni, almeno tre volte all’anno, ha attraversato il checkpoint di Erez per monitorare le attività di Gazzella e Fonti di Pace, altra associazione che si occupa anche della riabilitazione dei bambini feriti. Con un altro progetto, finanziato dalla chiesa valdese, l’associazione aiutava i bambini a superare le sindromi da shock post traumatico. Si tratta di due associazioni in cui lavorano 5 volontari italiani, tra cui Giuditta, che prestano la loro assistenza dal 2003.

Un campo profughi a Gaza
Un campo profughi a Gaza

La situazione nei campi profughi

Era il marzo di 20 anni fa quando partirono per la prima visita ai bambini del progetto di adozione a distanza. “Siamo entrati nelle case - ci racconta Giuditta- e subito mi ha colpito la dignità delle persone, poverissime e senza lavoro. I bambini erano sempre sorridenti, le famiglie molto unite e disponibili. Noi eravamo frastornati dalla miseria e dalle condizioni igieniche. Nei campi profughi la situazione era terribile. È’ migliorata negli ultimi anni”. Quei bambini sono cresciuti e sono stati accompagnati nel corso degli anni. Poi ne sono stati adottati altri. Con alcuni di loro sono rimasti in rapporti. “Abbiamo conosciuto Issa, Ibrahim e Imam nel gennaio del 2005 subito dopo un bombardamento. Avevano tra i 12 e i 14 anni e avevano perso le gambe. Ci siamo presi cura di loro fino ai vent'anni. Oggi hanno una famiglia, hanno figli e sono indipendenti . Vivono a Bait Layhia e non ho notizie recenti così come non ne abbiamo dei bambini in adozione”.

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Adulti e bambini durante la guerra
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Cosa è successo il 7 ottobre

Chiediamo a Giuditta se il 7 ottobre hanno capito subito cosa stava accadendo. “Il 7 ottobre ero in un edificio del Palestinian Medical Relief a Gaza City. Erano le 6 ed ero già sveglia, preparavo il caffè quando ho visto alcuni razzi dalla Striscia verso Israele. Ho subito capito che era successo qualcosa di grave perché i missili erano tanti, uno dopo l’altro. Mai visto un attacco così. Dopo alcune telefonate ho ricostruito cosa stava accadendo e ho deciso di rimanere in casa. Ci hanno comunicato che le scuole sarebbero rimaste chiuse e così anche gli uffici perché era evidente che ci sarebbe stata una risposta immediata di Israele. Il consolato italiano di Gerusalemme ci ha detto di restare dove eravamo, in una struttura sanitaria segnalata come sito protetto. Hanno acquistato viveri. Avevamo capito che sarebbe stata lunga ma mai avremmo immaginato così".

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Condizioni terrbili a Rafah

Giuditta era da sola fino al 9 ottobre quando ha saputo di non essere più in una zona sicura. A quel punto si è trasferita all’interno dell’ El Quds hospital insieme a centinaia di famiglie che avevano lasciato le loro case. Poi si è unita al gruppo di cooperanti internazionali e si è spostata alla sede dell’Undp, il programma di sviluppo delle Nazioni Unite. “Eravamo in 40. Abbiamo dormito per terra per due notti e poi grazie al consolato ci siamo spostati a Khan Younis dove abbiamo trovato 30 mila persone sfollate. C’è chi dormiva nei giardini, per terra, nei corridoi e nelle macchine. Dopo tre notti siamo arrivati a Rafah e lì siamo rimasti nel parcheggio del centro logistico dell’Unrwa per due settimane in condizioni igieniche terribili. Eravamo in 40 senza bagni e dormivamo all’aperto. L’acqua era razionata e non avevamo alcun cambio. Ci sono 30 gradi di giorno e un freddo terribile la notte. Gli ultimi giorni non eravamo più al sicuro quindi ci siamo spostati in una sede di una Ong locale fino all’alba del 1° novembre, quando alle 4 del mattino ci hanno avvisato che saremmo potuti uscire.” “La prima cosa a cui ho pensato quando sono entrata in Egitto - ci racconta Giuditta - è stato tutto quello che lasciavo. Il pensiero ricorrente è quando potremo tornare per riprendere il nostro lavoro”.

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