Il 7 febbraio 2020 lo studente egiziano dell'Università di Bologna fu fermato all'aeroporto del Cairo. Dal giorno successivo si trova in un regime di carcerazione preventiva costantemente rinnovato e con scarse possibilità di difesa. Una storia come altre mille, che ci riguarda da vicino
22 febbraio. 7 marzo. 26 settembre. 7 ottobre. 6 dicembre. Da ultimo, lo scorso 1 febbraio. È difficile ormai anche tenere il conto di tutte le volte in cui è stata prolungata la carcerazione preventiva nei confronti di Patrick Zaki. “Tra udienze di rinvio dovute alla pandemia e quelle di proroga ne abbiamo contate circa 20”, spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Così, a colpi di 15 o 45 giorni alla volta, ne sono passati 365 da quel 7 febbraio 2020 in cui, al di là delle porte scorrevoli dell’aeroporto del Cairo, Marise George Zaki e i suoi genitori aspettavano il quarto componente della famiglia, impegnato da un semestre al master Gemma sui diritti civili e di genere dell’Università di Bologna e di ritorno per quella che doveva essere solo una breve visita.
Da quelle porte Marise non ha mai visto uscire suo fratello: l’allora 27enne Patrik fu bloccato non appena atterrato dalla polizia del regime guidato dal generale Abdel Fattah al-Sisi.
L’arresto, le udienze
Per 24 ore non si seppe nulla di Patrick. Fu per prima l’organizzazione Eipr (Egyptian initiative for Personal Rights), che si occupa di diritti umani in Egitto e con cui Patrick collaborava, a denunciare che lo studente era stato minacciato, picchiato e sottoposto a scosse elettriche durante un interrogatorio durato 17 ore, che aveva avuto al centro proprio il suo ruolo di attivista. Solo il giorno dopo questo calvario, Zaki viene informato che l’accusa nei suoi confronti è di aver istigato alla violenza e al terrorismo su Facebook: accuse che in Egitto possono portare a condanne fino a 25 anni di carcere.
Quasi quindici giorni dopo, il 22 febbraio 2020, si svolge una prima udienza davanti al giudice, al procuratore e ai due diplomatici presenti in rappresentanza dell'Italia e dell'Ue. Patrick Zaki si dichiara innocente, dice di non capire le ragioni dell’arresto, fa presente che avrebbe potuto chiedere anche asilo in Italia, “ma non ho voluto", riportano i giornali mettendo assieme le poche informazioni che trapelano. Il tribunale rinvia di altri 15 giorni.
È l’inizio di una serie di udienze che si chiuderanno sempre con il ritorno in una cella nel carcere di Tora, dove nel frattempo Zaki è stato trasferito: anche questo è un dettaglio non ininfluente, perché quella prigione di massima sicurezza a sud del Cairo ospita normalmente i detenuti politici, compresi molti esponenti della Fratellanza Musulmana. Qui si trovava - ed è morto nel giugno 2019 - anche l’ex presidente Mohamed Morsi.
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Gli altri casi e l’abuso di potere di polizia e magistratura
Solo pochi giorni fa Ahmed Samir Santawy, 29enne egiziano questa volta studente alla Central European University (Ceu) di Vienna, è rimasto ostaggio della polizia egiziana appena rientrato al Cairo da Vienna. Santawy si era presentato di propria sponte alla stazione di polizia locale per farsi interrogare, dopo che gli agenti, nei giorni precedenti, avevano perquisito la casa della sua famiglia. Per 24 ore non si sono avute sue notizie, poi si è saputo che c’è stata una prima udienza e che gli addebiti nei suoi confronti sono simili a quelli per Zaki: unione ad un gruppo terroristico e diffusione di notizie e informazioni false e pericolose per lo Stato. Anche Santawy, secondo la Ong Afte con la quale il 29enne collabora, sarebbe stato picchiato.
Human Rights Watch calcola che in Egitto vi siano 60mila detenuti politici. Secondo Amnesty sono oltre mille i prigionieri di coscienza, cioè le persone detenute, come Patrick Zaki, per il loro attivismo in difesa dei diritti umani.
Neppure l’assenza o la scarsa possibilità di difesa sono un fatto raro. Amnesty International denuncia da oltre un lustro gli abusi di potere da parte di polizia e magistratura e ha raccolto centinaia di casi che riguardano studenti, attivisti politici e manifestanti, anche minorenni. Si comincia proprio con la carcerazione preventiva: “La Procura suprema - scrive Amnesty - abusa regolarmente dei poteri speciali previsti dalla legislazione egiziana, che consente la detenzione preventiva di una persona sospettata di aver commesso un reato per un massimo di 150 giorni. Dopo i primi 150 giorni, la Procura suprema chiede ai “tribunali speciali antiterrorismo” di rinnovare la detenzione preventiva per periodi di 45 giorni”. In questa fase come nella precedente, denuncia ancora Amnesty, “è la stessa Procura suprema a decidere chi dovrà esaminare il ricorso. Persino quando un giudice ordina il rilascio di un detenuto, la Procura suprema aggira la sentenza ordinando la detenzione della persona interessata per una nuova diversa accusa”. Non solo: “La detenzione preventiva dura in media 345 giorni e, in un caso, si è estesa per 1263 giorni”.
Gli echi e le differenze con la vicenda Regeni
Il motivo per cui in Italia l’attenzione sulla storia di Patrick Zaki è alta non sta solo nel fatto che il giovane studiava nel nostro Paese. Ma anche nelle inevitabili similitudini con la vicenda di Giulio Regeni: in entrambi i casi sono due giovani ricercatori fermati e torturati per aver osservato in maniera critica un regime. Che in entrambe queste storie, come nelle centinaia di altre meno note, si guarda bene dal fornire risposte e spiegazioni, pur sollecitato da diversi Paesi e dalla comunità internazionale. Ma ci sono anche delle differenze. E non solo perché se Giulio Regeni fu ucciso quattro anni fa Patrick Zaki è ancora vivo, e dunque è possibile salvarlo. “Sono persone diverse, con storie diverse, avvenute a distanza di anni”, osserva Noury. L’elemento in comune sta nella “indisponibilità a collaborare e rispondere positivamente alle richieste dell’Italia da parte dell’Egitto: si è cercato di mantenere buoni rapporti con il Cairo sperando che pagasse, così non è stato”, commenta il portavoce di Amnesty. Diverso tra i due casi è certamente l’atteggiamento degli atenei di riferimento, perché se da un lato l’Università di Bologna ha collaborato e si è battuta da subito insieme agli altri attori, istituzionali e non, per la ricerca della verità, “Cambridge evidentemente no, anzi quando da più parti - la famiglia, la procura di Roma - ci fu richiesta di collaborare mettendo a disposizione le informazioni mi pare che l’esito sia stato deludente”, ricorda Noury.
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La petizione per la cittadinanza
In questi 365 giorni l’attenzione in Italia per il caso Zaki è stata tenuta alta grazie a quel mondo che lo stesso Patrick frequentava, dall’ateneo bolognese e i suoi compagni, a organizzazione come Eipr e dalla stessa Amnesty International, mentre la famiglia, che vive a Mansoura, da un anno attende e sopporta con discrezione e silenzio. Un silenzio rotto in questi giorni solo dalla sorella Marise, che ha ringraziato queste realtà e ha raccontato che Patrick “non sta bene, è angosciato per il suo futuro e si suoi studi”.
Da qualche giorno, poi, è stata lanciata - anche attraverso una mozione dei deputati Pd Filippo Sensi e Lia Quartapelle - una petizione per concedere allo studente la cittadinanza italiana. Si cerca, per questa via, di tentare di garantirgli una qualche protezione in più: se Zaki fosse cittadino italiano Roma avrebbe qualche ragione istituzionale in più per avanzare pretese nei confronti del Cairo. Un po’ come per Giulio Regeni. Ma non tutti gli osservatori concordano sull’efficacia e fattibilità di questa iniziativa, anche in termini di ripercussioni per la famiglia. E la cittadinanza di per sé garantisce poco, come il caso Regeni ha purtroppo dimostrato.