L’episodio sarebbe accaduto il 17 o il 18 marzo scorso, come riferisce ai pm Franco Ottino, infermiere della Rsa e sindacalista Cisl. Il direttore, inoltre, avrebbe parlato di “puro allarmismo”. Così un’altra infermiera: “Per due mesi siamo rimasti senza mascherine”
Sono numerose le denunce che in questi giorni stanno giungendo alla Procura di Milano da parte di dipendenti e parenti degli ospiti del Pio Albergo Trivulzio, Rsa del capoluogo lombardo al centro di un’inchiesta della magistratura, insieme ad altre strutture, per i decessi registrati al suo interno dall’inizio dell’emergenza coronavirus e per la gestione della stessa (TUTTI GLI AGGIORNAMENTI - LA SITUAZIONE IN LOMBARDIA - LO SPECIALE). Tra queste c’è quella di Franco Ottino, infermiere del Pat e sindacalista Cisl, il quale ha scritto ai pm che il "17 o il 18 marzo" il dg della "Baggina", Giuseppe Calicchio, ora indagato, "avrebbe intimato a un infermiere del reparto Bezzi di togliersi la mascherina, minacciandolo, in caso di rifiuto, con l'immediato licenziamento”. Il dg avrebbe poi parlato di “puro allarmismo”, in risposta a una lettera dei lavoratori sulla mancanza di mascherine.
Nella giornata di domani, intanto, una delegazione di parenti del "Comitato Verità e Giustizia delle vittime del Trivulzio" incontrerà Fabrizio Pregliasco, il supervisore scientifico della struttura. L'incontro, come spiega lo stesso Comitato in una nota, "si svolgerà in videoconferenza" alle ore 14.
La denuncia
Ottino ricostruisce passo passo, riportando lettere di diffida dei sindacati, risposte della direzione generale e bollettini interni del Trivulzio, tutta una serie di carenze, a suo dire, sulla "gestione della salute e sicurezza all'interno" della struttura soprattutto riguardo alla "fornitura di dispositivi di protezione". Già a fine febbraio, scrive Ottino, "il personale era perfettamente consapevole di poter rappresentare un potenziale vettore del virus". L'11 marzo lo stesso sindacalista scrisse "una missiva indirizzata alla Direzione della Rsa" segnalando che gli operatori erano "impossibilitati a mantenere la distanza di sicurezza inferiore a quella prevista dalle disposizioni dell'Oms". Per questo, chiedevano mascherine. Il 13 marzo, in una lettera firmata dal dg Calicchio, la risposta: "Nessuna disposizione nazionale o regionale è disattesa o sottovalutata e la mancata applicazione di regole dettate da puro allarmismo, piuttosto che da competenza, non è evidentemente mancanza di tutela per gli operatori".
La testimonianza di un'infermiera
In un'altra denuncia, un'infermiera ha riferito che al Pio Albergo Trivulzio di Milano sono mancati "idonei dispositivi di protezione individuale sino alla metà di aprile", ossia per quasi due mesi dal primo caso accertato a Codogno. La donna, difesa dall’avvocato Anna Liscidini, ha inoltre evidenziato “carenze organizzative" sul piano "dell'efficace isolamento dei nuovi pazienti" e sulle prassi "di contenimento e distanziamento interne ai reparti”.
Il racconto dal primo caso sospetto di Covid
Nella denuncia, l’infermiera racconta quanto avrebbe visto nella Rsa da fine febbraio, cioè da quando il personale si accorse del primo caso sospetto di Covid all'interno della struttura. Ciò che destava maggiore preoccupazione tra gli operatori del Pat, si legge, "era il fatto che l'anziano ricevesse spesso visite dai parenti, tutti provenienti da Comuni limitrofi" alla "zona rossa" del Lodigiano. Inoltre, c’erano spostamenti tra i reparti di pazienti che "non erano sottoposti a tampone" né con sintomi Covid, né quando morivano. Il 14 marzo, prosegue la ricostruzione, una "dottoressa", assieme ad alcune caposala, disse alle infermiere di non indossare le mascherine "per non creare scompiglio tra i degenti”.
Il primo decesso e i tamponi
Il “primo decesso anomalo” al Trivulzio risale al 10 marzo, ma anche dopo quella data - scrive ancora la dipendente - i medici avrebbero chiesto al personale di servire i pasti agli anziani nel "salone" comune, malgrado gli infermieri di loro "iniziativa" avessero deciso di distribuire il cibo "presso le stanze dei pazienti" per ridurre le possibilità di contagi.
Nella denuncia, l'infermiera lamenta inoltre, delle "irregolarità" nell'esecuzione dei tamponi, effettuati "solamente" a partire "dal 20 aprile” e che, a detta dell’infermiera, non venivano effettuati “in profondità nella zona retro tonsillare, né tanto meno nella posteriore della rinofaringe". E "senza attendere l'esito del secondo" tampone, "gli ospiti risultati negativi erano spostati in altri reparti”.
Personale cercava soluzioni per proteggere i degenti
Nella denuncia l'infermiera segnala, poi, che era il personale a farsi "carico" delle soluzioni per cercare di "proteggere i degenti” e parla di spostamenti "su più reparti di medici, infermieri e operatori sanitari" perché c'era una "carenza di organico già prima dell'emergenza sanitaria". Decisioni che, assieme ad altre, avrebbero alimentato la diffusione del Coronavirus. La dipendente racconta, infine, che "nonostante le intimazioni di segno opposto ricevute, il personale sanitario" continuava "ad indossare mascherine, anche facendosi carico del loro acquisto”.
Dipendente chiede i danni: “Infetto per colpa vostra”
Intanto, ieri un altro operatore del Trivulzio ha chiesto i danni alla Rsa per avere contratto il Covid-19 a metà di aprile scorso, mentre era in servizio nella struttura. In una lettera firmata dai suoi legali, l’operatore attacca la “Baggina”, in quanto secondo lui "vi sono i presupposti per individuare il nesso causale tra la conclamata infezione e la vostra condotta (…) ravvisandosi comportamenti imperiti e negligenti posti in essere da parte vostra, in violazione dell'obbligazione di sicurezza del lavoratore sul luogo di lavoro su di voi gravante".
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