Da Drakka a Kroma, viaggio nell'arte e nei mondi di Lorenzo De Felici
LifestyleSaldapress ha recentemente pubblicato l'edizione omnibus del primo lavoro da disegnatore del fumettista frascatano e il primo volume della sua miniserie da autore unico. Un viaggio lungo 10 anni nell'evoluzione di un artista straordinario. L'intervista
Dieci anni di carriera, dalla Francia agli Stati Uniti, da disegnatore ad autore unico di una serie semplicemente stupefacente. Le recenti uscite Saldapress celebrano l’arte e il percorso di Lorenzo De Felici, eccellenza del fumetto italiano nel mondo, con due volumi assolutamente imperdibili. L’omnibus di Drakka (volume unico cartonato con 160 pagine a colori al prezzo di 22 euro), la serie che per tre anni, a partire dal 2013, lo aveva tenuto impegnato al fianco dello sceneggiatore francese Frédéric Brremaud (Brindille, Love), , e il primo dei due volumi di Kroma (brossurato, 112 pagine a colori, 14,90 euro), una miniserie semplicemente stupefacente realizzata come autore unico per Skybound, l’etichetta di Robert Kirkman in Image Comics. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Due lavori che escono in contemporanea. Partiamo da Kroma, un progetto di cui sei autore unico e che ha avuto una lunga gestazione.
È nato come idea molti anni fa, poi è stato messo in un angolino per tanto tempo fino a che l’ho ritirato fuori recentemente. Era un progetto con un tono molto diverso, uno stile molto diverso, più grottesco, una favola con toni da favola e nella mia testa doveva essere rivolto al mercato francese. Ho provato a farlo partire con scarso successo, quando sono stato inglobato nel mercato americano, dopo un po’, ho capito che potevo farlo da solo, l’ho riscritto daccapo e l’ho presentato a Robert Kirkman, con cui avevo già lavorato, e al nostro editor. Sono stati super entusiasti dall’inizio e visto che avevamo lavorato insieme per cinque o sei anni e ci eravamo trovati bene, mi hanno dato questa possibilità.
Kroma è un fantasy con tanti riferimenti ai classici di genere. Io ci ho visto qualcosa di Star Wars, qualcosa di Mad Max: Fury Road, persino qualcosa di Zelda. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento nella costruzione della storia e nel world building?
Le cose che hai nominato, inconsciamente, possono starci dentro, d’altra parte sono tutte cose che mi stanno a cuore da spettatore e giocatore. Però devo dire che ho cercato di sfuggire a tutte le citazioni volontarie, quando vedo che mi sto avvicinando troppo a qualcosa svolto, mi piace l’idea irraggiungibile di essere totalmente originale.
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Come mai hai scelto il fantasy?
Il punto di partenza non sono stati tanto l’ambientazione e i riferimenti di genere ma la vicenda. Volevo usare il genere fantasy o la fantascienza per sfruttare il potere metaforico di questo tipo di ambientazioni, non volevo fare una storia realistica anche perché temo che in queste si corra il rischio di estraniare persone che non vi si ritrovano, mentre in un mondo fantasy hai la possibilità di raccontare delle cose in maniera indiretta. Una cosa che mi sono divertito a fare è cercare poi le conseguenze di quelle premesse: come poteva evolversi a livello di architetture e abbigliamento una comunità che aveva rifiutato il colore? Questa scelta doveva ripercuotersi un po’ su tutta la loro società.
Protagonisti sono due giovanissimi. Come mai questa scelta?
Io non dico esattamente quale sia la loro età ma diciamo che si trovano in una sorta di preadolescenza, 13-14 anni, qualcosa di più, qualcosa di meno. È un’età per me molto interessante perché da delle premesse che ci sono state lasciate dai nostri genitori e dalla comunità ci affacciamo al mondo esterno formando il nostro carattere. Col tempo si può cambiare un po’, ma è lì che c’è una presa di posizione molto forte e si inizia a mettere in discussione l’autorità. È un momento di passaggio molto fertile, molto bello e delicato. Trovo più credibile e plausibile l’evoluzione di un personaggio se viene collocato in quell’età lì, dove la possibilità di un cambiamento è più concreta.
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Il colore è spesso un aspetto determinante in un fumetto, ma in questo caso potremmo quasi dire che è un personaggio, come Zet e come Kroma.
Ho fatto il colorista per tanti anni, insegno colore in una accademia di design e concept art, mi portavo dietro un bagaglio di professionalità che non è solo quella di saper colorare, riempire spazi e fare le sfumature. A me interessa tantissimo il colore perché è una traccia narrativa che a volte però viene data un po’ per scontata, un po’ come la linea di basso in una canzone, non la ascolti con la stessa attenzione che dai alla chitarra. Mi è sempre interessato portare il colore al centro della storia, dargli risalto, ed è stato proprio il tentativo di rendere il colore un personaggio che mi ha portato a scrivere questa storia.
Come hai lavorato sulla scelta delle palette cromatiche?
Non è che mi sono messo lì a pensare a una palette, ho cercato di creare soprattutto il contrasto tra il colore e i grigi. Viste le premesse della storia era facile giocare tra i contrasti tra la vita marziale all’interno della comunità e tutti i colori rigogliosi all’esterno. Volevo che ci fosse un contrasto quasi traumatico tra le due realtà, una molto ordinata e controllata e l’altra molto emotiva, un po’ la contrapposizione tra l’apollineo e il dionisiaco. Volevo far rimpiangere al lettore il colore quando si torna dentro la città, un po’ come capita ai personaggi.
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Tra un mondo privo di colore e il rischio di essere attaccato da giganteschi rettili carnivori, quale opzione sceglieresti? Meglio una grigia tranquillità o un pericolo coloratissimo?
Questa è una bella domanda. In ognuno di noi ci sono un po’ tutti e due questi istinti, si alternano, passiamo periodi in cui vorremmo stare in bianco e nero e altri in cui desideriamo buttarci nella foresta. Sarebbe giusto trovare un equilibrio, perché non è giusto gettarsi nel pericolo senza pensarci ma non è nemmeno auspicabile vivere al sicuro da ogni rischio e ogni novità. Entrambi gli estremi sono un errore, l’unica risposta possibile è la conoscenza.
Le differenze stilistiche tra Drakka e Kroma sono evidenti. Perché per Kroma hai scelto uno stile più realistico? Esigenze di mercato pubblicando con un editore americano? O c’è anche dell’altro?
Da disegnatore mi piace pensare di poter raccontare qualsiasi storia adattando il disegno al contenuto della storia stessa. Drakka è un fumetto d’azione, cupo ma anche divertente ed esagerato, grottesco. All’epoca ero più immaturo dal punto di vista artistico e mi sentivo sicuro con quello stile. La prima stesura di Kroma aveva uno stile più grottesco proprio perché era quello che riuscivo a fare e non mi sentivo di mettere su una storia con contenuti più adulti abbinandola a uno stile grottesco, avevo in mente una storia con toni più leggeri, personaggi più buffi. Col tempo ho visto che il disegno grottesco non ha tanta fortuna dal punto di vista commerciale e quindi ho iniziato a esercitarmi anche sullo stile più realistico, lavorando per l’America ho fatto tantissima pratica, e quando sono arrivato ho pensato che potevo raccontare anche una storia un po’ più seria. Così ho riadattato la prima stesura, ho cambiato la psicologia dei personaggi e i dialoghi. Per esempio Kroma doveva essere inizialmente ribelle fin dal principio, ma non pensavo fosse credibile per una bambina cresciuta in cattività, serviva qualcuno che le mettesse la pulce nell’orecchio.
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Parliamo ora di Drakka, un progetto che ha qualche anno in più e che ora Saldapress riporta in Italia in una edizione omnibus di prestigio. Come è stato lavorare con Frédéric Brremaud?
È stato molto bello, è stato il mio primo fumetto da disegnatore, prima facevo solo il colorista, e avevo un’ansia infinita addosso, ma lavorare con Fréd è stato immediatamente divertente. Mi sono trovato molto in sintonia, siamo ancora un sacco amici, ed è una storia che Fréd ha scritto anche partendo da quello che disegnavo io. Quando mi ha chiesto se volessi disegnare una storia di mostri sono stato super felice. Ci ho sudato poi giorno e notte per circa tre anni, mi ha insegnato tantissimo e mi ha aiutato a sbloccarmi, mi ha fatto capire molte cose su di me, sul mio modo di disegnare, sul mercato. E sono cresciuto tanto anche in sicurezza nell’arco di quei tre anni, questa cosa si nota anche nel disegno se si confrontano le prime pagine alle ultime.
Drakka è una curiosa sintesi tra una storia di mafia e una storia di vampiri. Personalmente qual è stata la parte che ti ha divertito di più disegnare?
Sicuramente la linea narrativa vampiresca perché mi piace molto il soprannaturale nelle storie, se viene usato bene ha sempre un significato interessante, nascosto, che è bello indagare. E mi è piaciuta molto anche se Fréd la utilizza in maniera strana rispetta al solito, creando una comunità di mostri stranissimi con questo scimmione gigante che fa da loro capo, un approccio totalmente inedito almeno per me. Ma questo mi ha lasciato la possibilità di esplorare in totale libertà questo tipo di tematiche. Anche la parte mafiosa in un certo senso è divertente, ma prevedeva un po’ più di realismo. Ho cercato di divertirmi lo stesso utilizzando con toni un pochino più cupi.
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Il finale lascia in qualche modo aperto un piccolo spiraglio perché la storia possa continuare. Ti piacerebbe lavorare a un sequel di Drakka?
In realtà sì. E considera che poco dopo che era finito, io volevo scrivere qualche pagina di mio pugno per continuare la storia e mandarla in un’altra direzione, creando un altro spiraglio complementare a quello lasciato aperto da Fréd. Poi la cosa si è persa perché nessuno di noi due aveva tempo e possibilità di continuare, ma mi è rimasta sempre un po’ di pulce nell’orecchio. Con Fréd ogni tanto parliamo di tornare a lavorare insieme su qualcosa, anche se è un altro progetto, ma tornare su Drakka sarebbe bello, magari con uno stile misto tra quello grottesco e quello più realistico.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Al momento sto lavorando su un altro progetto sempre scritto da Robert Kirkman, di fantascienza, che uscirà a giugno. Di solito quando lavoro su un fumetto non ho tempo di fare tante altre cose e sono solo su quello, ma ho anche altri progetti miei che mi piacerebbe cominciare e non mi dispiacerebbe tornare a lavorare su una cosa scritta da me perché è stata un’esperienza molto bella anche se difficile.