Svuotata dal south working, messa in discussione nella sua efficienza, la metropoli lombarda vive una fase di passaggio tra ciò che era e ciò che potrà diventare. Il giornalista autore di "Fuga dalla città" ripercorre i cambiamenti che la città ha vissuto nell'ultimo anno
Un tempo Milano era il centro d’Italia. Non in senso geografico, ovviamente, ma in senso economico e antropico sì. A Milano si incontravano Nord, Sud e Centro, Est e Ovest, Italia, Europa e Mondo. A Milano arrivavano da ogni angolo del Paese per infilarsi una giacca ed entrare ogni giorno in uno di quei grossi palazzi a vetri che ospitano gli uffici delle grandi aziende multinazionali. A Milano vivevano, poi, magari con la nostalgia del sole ma con la consapevolezza di godere dei pregi di una metropoli che metropoli non è, concentrata nel raggio di pochi chilometri, con la migliore rete di trasporto pubblico locale d’Italia. Poi è arrivato il Covid e Milano è stata minata profondamente nelle sue certezze. Prima quella di una eccellenza sanitaria sempre data per assodata e infine messa in discussione, poi quella della sua stessa anima cosmopolita, della sua capacità magnetica e attrattiva. Nell’ultimo anno, Milano ha visto andar via decine di migliaia di persone, che hanno fatto i bagagli e sono tornati a casa senza per questo perdere il lavoro. Colpita dal southworking, la città ha bisogno di ripensarsi. Come? Fabio Massa, giornalista esperto di cronache milanesi e lombarde per Affari Italiani e il Foglio, ha provato a tracciare la via tra documenti e interviste in Fuga dalla città (Chiarelettere, 288 pagine, 16 euro).
Come è cambiata Milano nell’ultimo anno?
Ha subito una fuga non solo fisica, con chi è tornato al Sud o è rimasto a casa nell’hinterland, ma anche una fuga dall’idea della città che era prima, dalla città con la sanità eccellente che tale non si è dimostrata, una fuga dall’idea di città ricca col Comune che ha perso 500 milioni di euro di introiti, di città desiderata da tutti, dall’idea stessa della città accogliente che, sotto sotto, è sempre stata. E questa per me è la parte più dolorosa.
È un cambiamento irreversibile?
Sì. Questo non vuol dire che Milano non sarà più un gran Milan. Si è ripresa dalla peste e si riprenderà ancora. Non sarà più come prima, però, dovrà mutare, e il cambiamento impatterà su tutte le nostre vite. Il problema è che la politica dovrebbe anticipare questi cambiamenti e indirizzarli mettendoci dentro idee, invece non sta facendo quasi nulla per discutere del dopo. Nei nuovi grandi quartieri che nasceranno con una colata di miliardi di euro presso gli Scali ferroviari, per esempio, mi aspetterei che si prevedessero ambulatori di quartiere già ben stabiliti; mi aspetterei auto elettriche in car-sharing; mi aspetterei dei punti di drop off per le consegne di pacchi. E invece non se ne parla nemmeno.
Anche leggendo le interviste nel suo libro, si ha l’impressione che per molti la ricetta sia opporsi in ogni modo a questo cambiamento. Per Sala ma anche per un architetto come Stefano Boeri. È la soluzione giusta, secondo lei?
Uno non può fermare l’acqua, al massimo può deviarla. Io capisco Boeri quando dice che è preoccupato che piazza Cordusio diventi un buco nero al centro della città, ma il punto qual è? Considerato che le torri direzionali serviranno meno, cosa ne facciamo? Quello spazio va occupato. Condivido con Beppe Sala le preoccupazioni legate all’economia sullo smart working, ma pensiamoci: uno in smart working non è detto che debba cucinarsi per forza il pranzo. Bisognerebbe fare un discorso di diffusione dei servizi pubblici e privati sulla città. Le attività un tempo concentrate sotto le torri direzionali si sposteranno, lo faranno da sole, ma durante questo procedimento la politica deve accompagnarle con misure che evitino alle persone di perdere il lavoro.
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Lo smart working è una soluzione contingente o è destinato a diventare sistemico?
Dipende dal posto di lavoro. Alcuni lo rifuggiranno e torneranno più di prima al contatto, altri, come quelli prettamente d’ufficio, abbracceranno un sistema misto. Andiamo a vedere cosa è successo in questo anno, al netto dei danni psicologici da isolamento domestico: crollo di richieste di malattia all’Inail; prima si perdevano giorni di lavoro perché si perdeva il treno, oggi no; in più, e questo è un tema sindacale, non avendo le ore di lavoro di fatto tu sei pronto a lavorare sempre, che è il sogno di ogni imprenditore. Si può andare avanti così? Ovviamente no, perché il rendimento da una parte è aumentato ma è calato per chi è meno responsabile, da una parte si rischia il burn out, dall’altra il proliferare dei fannulloni. Sono ragionamenti che riguardano anche le imprese e avranno un impatto sulla città, sull’affollamento di mezzi pubblici e strade.
Nel libro si mette in discussione il mito dell’efficienza lombarda e milanese: è stato difficile per un milanese come lei?
Tanto, perché sono sempre stato negli anni scorsi un propugnatore del cosiddetto modello Milano, un modello non partitico ma politico in cui un sindaco di colore diverso non sfascia ciò che ha fatto il precedente. Vedere che questo buon governo era poggiato su fragilità mi ha molto addolorato. Detto questo, però, sono anche molto critico, sapevo che il modello Milano si portava dietro una buona dose di ipocrisia, con le marce per i diritti da una parte e una politica che non si occupa di garantirli, quegli stessi diritti, dall’altra. Chi ha smosso le acque sui rider non è stato un politico ma un giudice, Fabio Roia, che dopo essere guarito dal Covid ha forzato quel meccanismo di sfruttamento portando alla concessione di diritti ai rider. E non è la prima volta che la magistratura fa quello che dovrebbe fare la politica, era già successo coi call center.
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Lo ha chiesto praticamente a tutte le personalità che hai intervistato, io lo chiedo a lei. Perché c’è tanto odio verso Milano?
Per almeno tre motivi fondamentali. Il primo è un problema di Milano, che in questi ultimi dieci-quindici anni ha mostrato che in fondo non ha bisogno di nessuno, se deve prendere una decisione lo fa coi propri soldi, ha moltiplicato per tre il proprio Pil, e questo non è stato molto sopportato. Poi Milano ha un’etica calvinista del lavoro, il milanese accetta tutti purché lavorino, cosa che non è condivisa da tutta Italia. Terzo, è la città più europea d’Italia in assoluto, e questo ti pone un po’ distante dal resto, anche perché Milano è una città profondamente italiana, quando finge di essere europea è come il figlio che esce dalla famiglia e la disconosce. Non dimentichiamoci poi la distanza della politica milanese da quella nazionale, non esiste un politico milanese che sia scelto per la politica nazionale, l’ultimo è stato Salvini. Questo chiudersi e dire di essere migliori, porsi come modello etico differente, ha creato e alimentato l’odio per Milano. Poi sono venute fuori le vendette dei torti passati, con cartelli come “non si affitta ai settentrionali”.
Milano ha resistito al Covid. Più e meglio di altri capoluoghi lombardi. Sarà piegata dal south working?
No, non penso che sarà piegata dal south working. Il valore di Milano è quello di essere al centro di vie di scambio, lo è sempre stata, è il significato stesso del suo nome. Le sedi sono qui, tu puoi lavorare da remoto, ma se vuoi che la tua carriera si sviluppi, devi tornare qui. E non credo che lo smart working integrale sia un’opzione percorribile per l’intero panorama italiano.