Un anno di covid, la pandemia vista da un rider

Cronaca

Giuliana De Vivo

La storia di Francesco Gasparini, 35 anni, che lavora a Milano con diverse piattaforme come Just Eat e Deliveroo dal gennaio del 2018

Erano abituati all’umido della pioggia, al vento che taglia le mani, all’afa estiva e al ghiaccio che fa scivolare le ruote. Erano abituati a sgusciare veloci nel traffico. Non lo erano al silenzio, al suono invadente delle sirene delle ambulanze. In quei giorni "le strade erano completamente deserte: c'eravamo noi rider, forze dell'ordine, ambulanze - tante, purtroppo. Si respirava un'aria alquanto surreale”, ricorda Francesco Gasparini, 35 anni, rider a Milano con diverse piattaforme come Just Eat e Deliveroo dal gennaio del 2018. 

Lui, come tutti i fattorini di quella che chiamavamo gig economy considerandolo fenomeno di nicchia, e che oggi è parte della nuova normalità, ha vissuto suo malgrado da protagonista i primi mesi di pandemia e di lockdown: quando a quasi nessuno era possibile uscire e spostarsi, loro si sono ritrovati padroni assoluti di città spettrali.

Vite a volto coperto 

 

 

Fuori dalla prima linea delle corsie degli ospedali, i rider sono stati pionieri della nuova convivenza forzata con protezioni e precauzioni fino ad allora sconosciute nel nostro mondo. Il gel per sanificare le mani come parte integrante del kit di lavoro, assieme al casco e allo zaino per le consegne. Il problema delle mascherine Ffp2, nelle prime settimane difficili da trovare e costose:  "All'inizio usavo uno scaldacollo, con il caldo mi sembrava di soffocare. Poi un collega mi ha regalato una mascherina. Anche le aziende hanno cambiato direzione: inizialmente davano un rimborso di massimo 25 euro al mese per i dispositivi di protezione individuale, poi una sentenza del tribunale di Firenze le ha obbligate a fornirli ai rider (era il 3 aprile del 2020, la sentenza si riferiva a mascherine ma anche a guanti, gel igienizzanti e prodotti di pulizia dello zaino, ndr). 



Il food delivery diventa di casa

 

 

Già ad aprile 2020 il centro studi Fipe registrava che il 53% degli utilizzatori saltuari dei servizi di food delivery aveva fatto ordini almeno 1 o 2 volte a settimana durante la pandemia; il 10% di chi non aveva mai ordinato aveva iniziato a farlo. Nel 2019 il food delivery rappresentava il 18% del totale degli acquisti online, oggi secondo l'Osservatorio Just Eat è il 25%. Vi ricorrono 16mila ristoratori in Italia, per un giro d'affari pari a 750 milioni di euro (fonte: Assodelivery). "Ho iniziato a fare il rider nel gennaio del 2018", racconta Francesco, "perché come tante persone avevo perso lavoro di addetto vigilanza. Così ho inforcato la bicicletta. All'inizio lo usavo come lavoro tappabuchi, perché nel frattempo avevo trovato un altro lavoro sempre nel campo della sicurezza. Poi però mi sono reso conto che in quest'ultimo lo stipendio non era adeguato alle mansioni. Dall'ottobre 2019 ho iniziato a fare il rider a tempo pieno. Nel mese di aprile scorso ho guadagnato 2500 euro. In media faccio 400 euro a settimana". 



Rivoluzione contrattuale 

 

 

Mentre il virus cambiava le vite di tutti in tutto il mondo, anche l'ipotesi di un inquadramento contrattuale diverso prendeva forma. E non solo a colpi di battaglie legali, come nel famoso caso di Marco Tuttolomondo, il primo rider assunto su ordine di un giudice del Tribunale di Palermo nel novembre scorso. Due settimane fa Just Eat ha annunciato la volontà di assumere, da marzo, i primi mille rider, inquadrandoli come dipendenti secondo il modello contrattuale "Scoober": oltre ad avere un compenso orario base, Just Eat promette che avranno diritto a ferie, malattia, coperture assicurative, indennità per il lavoro notturno e quello nei festivi. I primi assunti saranno in Lombardia, con Monza a fare da capofila. E anche se a Francesco la libertà di orari da rider piace, non esita a dire: "Ci penso tutti i giorni al fatto che potrei essere assunto: io spero proprio di sì. Di fatto mi sento un dipendente".

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