Chi è Mahershala Ali, attore di Green Book e True Detective

Spettacolo

Pietro Pruneddu

Afroamericano e musulmano, è il volto della nuova Hollywood. Dopo una gavetta in parti minori, l’attore californiano si è fatto le ossa con House of Cards prima di vincere due Oscar e un Golden Globe. Adesso, è tornato nella serie cult della HBO

Secondo qualcuno, Mahershala Ali ha la risata migliore di tutta Hollywood. Di motivi per ridere di gusto, l’attore statunitense ne ha accumulati parecchi negli ultimi tempi. È come uno di quei gregari infaticabili del ciclismo, che per gran parte della carriera hanno fatto l’andatura in salita per i loro capitani più blasonati. E poi all’improvviso si ritrovano a vincere Giro e Tour perché qualcuno ha deciso finalmente di puntare su di loro. Nel suo caso, le grandi corse a tappe vinte si chiamano Oscar (due volte) e Golden Globe, messi in tasca nel giro di due anni. Dopo “House of Cards”, “Moonlight” e “Green Book” la nuova sfida è “True Detective”. La parabola del comprimario che diventa star, nella terra delle contraddizioni estreme e del “sogno americano”, non poteva che spettare a un musulmano nero dal talento sconfinato (FOTOSTORIA).

Il nome più lungo della Bibbia

La vita di Mahershala Ali è un lavoro di sottrazione. Come uno scultore, che arriva al nocciolo togliendo il superfluo. Ha iniziato dall’anagrafe, dove è nato come Mahershalalhashbaz Gilmore. Un nome biblico, che viene dal Libro di Isaia e significa in ebraico qualcosa di traducibile con “fare in fretta il bottino”, una profezia sbagliata nel suo caso. Diversi anni dopo, gli fecero notare che il cognome non entrava per intero nel poster di un film e così ha deciso di sforbiciarselo.

Stellina del basket, rapper, attore

Nato nel 1974 a Oakland e cresciuto a Hayward, in California, è figlio di Willicia e Phillip, lei ministra di culto battista, lui ballerino e performer a Broadway. Ha studiato al St.Mary’s College, dove è entrato grazie a una basketball scholarship, una borsa di studio “sportiva”. Ma presto il giovane Gilmore si è sentito deluso dal modo in cui i giocatori venivano trattati, quasi come prodotti usa e getta. Certo, l’NBA poteva essere una strada, ha spiegato a GQ. E invece si è laureato in comunicazione. “Avevo alcuni talenti e non abbastanza soldi”, ha ammesso in diverse interviste. Una di queste capacità fuori dal comune è l’improvvisazione nel rappare, qualità che gli tornerà utile negli anni. La musica hip-hop per brevi periodi è ricomparsa nella sua vita: tra il 2006 e il 2007 con lo pseudonimo di Prince Ali ha anche realizzato due dischi (Corner Ensemble e Curb Side Service). Ma la via maestra era un’altra: New York University, dove si è diplomato in recitazione nel 2000. L’anno precedente, dopo una visita in moschea con la sua futura moglie, si era convertito all’Islam, in particolare al movimento della Ahmadiyya. “C’era un elemento di disciplina che dava senso. Se sei di fede islamica cerchi di dare il meglio di te stesso, impari ad accettare gli altri”, ha spiegato. Dal punto di vista lavorativo, l’essere musulmano “mi aiuta nel creare empatia per i personaggi che cerco di incarnare, altri esseri umani con problemi profondi e personali quanto i miei”. Il passaggio alla fede musulmana (negli Usa siamo a cavallo degli anni pre e post attentati dell’11 settembre, con tutte le possibili conseguenze del caso) ha portato anche al cambio del cognome in Ali, il primo colpo di scalpello dell’attore che conosciamo adesso.

Due ruoli diversamente atipici

La lunga gavetta di Ali è iniziata con il ruolo del dottor Trey Sanders nella serie tv "Crossing Jordan", a cui seguono altre parti importanti in prodotti seriali come "4400" e "Codice Matrix", più apparizioni in singoli episodi di cult come "NYPD Blue", "CSI", "Lie to Me", "Law&Order". Nel mentre si è affacciato per la prima volta sul grande schermo nel 2008: il regista David Fincher gli ha affidato il ruolo di Tizzy Weathers nel film “Il curioso caso di Benjamin Button”. Ali sembra avere la paradossale bravura di conquistarsi solo piccole parti in ottime produzioni: recita nel riuscito "The Place Beyond the Pines" di Derek Cianfrance, poi è il colonnello Boggs in due film della saga di "Hunger Games". Infine è accanto al fresco premio Oscar Matthew McConaughey in “Free State of Jones”. Intanto però il mondo si era finalmente accorto di lui grazie a due ruoli diversamente atipici: il primo è quello di Remy Danton, il lobbista del Congresso di “House of Cards”, che poi diventa responsabile della comunicazione di Frank Underwood. Elegante, intelligente, carismatico: l’interpretazione nella serie gli è valsa una nomination agli Emmy del 2016. “House of Cards ha aperto alcune porte”, ha confessato Ali, ma dopo quattro stagioni ha scelto di lasciare. “Non voglio essere identificato con un personaggio. L’ho capito quando la gente per strada ha iniziato a chiamarmi Remy”. Così ha chiesto a Netflix di abbandonare la serie. “È il momento giusto per un afro-americano in questo settore: le opportunità stanno cambiando”, ha svelato Ali aggiungendo di essersi sentito come il “leading man (il protagonista dello show ndr.)”, un concetto ricorrente nei suoi discorsi, anche quando era semi-sconosciuto. Il secondo ruolo iconico che si è ritagliato in questa fase è quello di Cornell “Cottonmouth” Stokes nella serie Marvel “Luke Cage”. È un signore della droga di Harlem dalla forza sovrumana, un villain che l’ha costretto a interpretare un personaggio che “cerca sé stesso creando momenti non malvagi”.

Moonlight, la luce nella notte

E alla fine arrivò la luce. Nella carriera di Mahershala Ali l’illuminazione, seppur metaforica, è quella di “Moonlight”, l’acclamata e pluripremiata pellicola di Barry Jenkins del 2016. Ali ha un ruolo limitato alla prima mezzora del film, ma tanto è bastato a folgorare tutti. Interpreta Juan, uno spacciatore di crack di Miami che si sdoppia tra la sua esistenza borderline e il prendersi cura del giovane protagonista Chiron, “Little” (piccolo ndr.) nella versione originale per tutta la prima parte del film. Un mentore, una figura paterna che aiuta il bambino bullizzato per la sua diversità a sopravvivere grazie ai suoi insegnamenti. “Ho avuto una reazione emozionale quando ho letto il copione”, ha raccontato Ali. “La più bella e difficile esperienza della mia vita. Juan mi manca più di qualsiasi personaggio che abbia mai interpretato”. Questo nonostante la possibilità di scivolare dentro il cliché dello spacciatore di colore a cui rischiava di andare incontro. Una rivista di moda ha detto che “Mr Ali ha un certo “swag”. Dal suo atteggiamento al sorriso radioso, alla profonda risata". È già tutto lì, in "Moonlight", mentre gira con la sua auto d’epoca, con una sigaretta dietro l’orecchio.

L’Oscar che rimarrà nella Storia

La critica si è innamorata dell’intensa performance di Mahershala Ali in “Moonlight”, che ha visto piovere premi e nomination in tutto il mondo, tra cui il riconoscimento dell’African-American Film Critics Associations. L’attore si è aggiudicato nell’ordine: il SAG Awards, la candidatura ai Golden Globes, ai Satellite Awards e ai Bafta. Ma soprattutto, il 26 febbraio 2017, ha portato a casa l’Oscar come miglior attore non protagonista. Un trionfo storico, dato che si è trattato della prima statuetta mai vinta da un attore musulmano in quasi un secolo. È stato un premio che ha fatto rumore, uno schiaffo neanche troppo velato dell’Academy all’amministrazione Trump in pieno tumulto sociale e politico per la vicenda del muslim ban, che stava esplodendo proprio in quelle settimane. Qualche settimana prima, durante la cerimonia degli Screen Actors Guild Awards, Ali ha spiegato che lui e sua madre sono stati in grado di mettere da parte le divergenze quando lui si è convertito all’Islam. E ha lanciato un monito: “Abbiamo visto cosa succede quando le persone vengono perseguitate: si chiudono in sé stesse, si isolano”. Nella notte degli Oscar, invece, ha raccontato con emozione che la moglie Amatus-Sami Karim aveva appena partorito la loro primogenita. Poi si è calato nel suo lato spirituale e professionale (che per Ali coincidono quasi sempre) e ha detto: “I miei insegnanti mi hanno sempre ripetuto: non sei tu, non si parla di te. Sei il personaggio, sei al servizio del personaggio e delle storie”.

Il cavaliere del Black Renaissance

Musulmano, nero, americano e di successo. Mahershala Ali, da perfetta miscela vivente delle diversità a stelle e strisce, ha dalla sua parte una rara capacità di fascinazione che emerge nelle parole di letteralmente tutti i suoi intervistatori. È il portabandiera del “Rinascimento black” che sta attraversando Hollywood negli ultimi anni ("Get Out", "Black Panther", "BlacKkKlansman" solo per citare tre titoli nel mucchio). Non usa mai parole banali per parlare del tema anche se ha confessato che il 40% delle sue interviste sono incentrate sulla “diversità di colore” della pelle. Il razzismo, ammette, “è parte della mia esperienza. Ho imparato presto che è ovunque, esplicito o sotterraneo. Ma non è qualcosa a cui permetto di farmi allontanare dal mio percorso”. In una recente intervista Ali ha raccontato che “essere neri è ancora una fatica”, però parlando degli Usa si è detto convinto “che abbiamo la capacità di rendere davvero questo Paese fantastico. Non so se succederà nel corso della mia vita, ma credo che il pendolo oscillerà nella giusta direzione, nel tempo”.

Lo spinoso caso di Green Book

Dopo il primo Oscar, ovviamente, il telefono di Ali ha cominciato a squillare per proposte non più da comprimario. Una piccola parte in "Hidden Figures" (Il diritto di contare), poi si è trovato ad affrontare quella che gli americani chiamano “fase grain”, in pratica il momento in cui un attore vince la statuetta più desiderata e rischia di adagiarsi in film ben pagati, una sorta di “pensione dorata” poco rischiosa e molto redditizia. Così ha deciso di andare controcorrente. E ha accettato il ruolo di co-protagonista in “Green Book”, film di Peter Farrelly, presentato l’anno scorso al festival di Toronto. Il titolo è un riferimento al libro “The Negro Motorist Green Book”, guida pubblicata al tempo delle segregazioni per informare i viaggiatori afroamericani su quali posti evitare e quali erano “accettabili”. La storia (vera nelle intenzioni degli autori) è quella di Don Shirley (interpretato da Ali), colto pianista cresciuto in una ricca famiglia di immigrati giamaicani a New York, che a inizio anni ’60, per una tournée nel profondo Sud razzista, ingaggia come autista tuttofare Tony “Lip” Vallelonga (interpretato da Viggo Mortensen), un buttafuori italoamericano dai modi rozzi. Avviso spoiler: i due diventano amici.

Premi e polemiche

Ali si è innamorato subito del copione: “Ho pensato che la storia fosse importante, che fosse un progetto necessario da raccontare”. La sua attenzione si è concentrata sul personaggio di Shirley: “Non lo conoscevo e non avevo mai sentito parlare del Green Book. Ma quando ho letto la sceneggiatura ho capito che era un personaggio fantastico. Don aveva la capacità di suonare musica straordinariamente complicata, che era considerata solo musica bianca”. Per la sua performance, Mahershala Ali ha vinto il Golden Globe e il 24 febbraio 2019 si è aggiudicato il suo secondo Oscar. Nel discorso ha voluto ringraziare sua nonna, definendola "la mia eroina, per tutta la mia vita. La donna che mi ha detto che avrei potuto far qualunque cosa mi fossi messo in mente di fare, la donna che mi ha insegnato che, se non riesci la prima volta devi provare di nuovo e di nuovo sino al successo, la donna che mi ha insegnato a pensare positivo”.

Una battuta del suo personaggio in Green Book riassume tutti i suoi paradossi: “Non sono nero abbastanza, non sono bianco abbastanza: dimmi tu chi e cosa sono io”. Il film affronta il razzismo in modo ironico, puntando sul gioco del rovesciamento di stereotipi. Eppure nelle la pellicola ha scatenato un putiferio. Alcuni critici la accusano, sembra un paradosso, proprio di velati cliché razzisti. Inoltre Mortensen si è lasciato sfuggire la parola “negro” in un’intervista e peggio di tutto, i familiari di Don Shirley hanno attaccato il film smontandone completamente la veridicità storica. Il giudizio dei parenti del pianista è che la trama della pellicola è “una sinfonia di bugie” e che i due protagonisti non sono mai stati amici nella realtà. Mahershala Ali, ancora una volta, si è distinto a modo suo: mentre l’intera produzione giurava sulla storia raccontata, l’attore ha approfittato del palco dei Globes per rivolgere un pensiero molto sentito ai familiari di Shirley, ai quali in precedenza aveva telefonato in forma privata per esprimere le sue scuse (apprezzate e lodate dai parenti del musicista) per eventuali inaccuratezze di cui non era stato messo al corrente nel copione.

Quella volta che Bill Murray l’ha accecato con la vodka

Se si tratti di pacatezza, capacità di gestione degli imprevisti o enorme autostima non è dato sapere. Di certo Ali è dotato di una disarmante versatilità, che si può riassumere nella sua recente ospitata da Ellen DeGeneres, quando in pochi minuti ha prima improvvisato un balletto per beneficienza sulle note dei Jackson 5, poi ha raccontato di quando Bill Murray alla festa dei Golden Globes gli ha versato della vodka in testa che l’ha reso quasi cieco per diversi minuti. E questo non gli ha impedito di rilasciare un’intervista, anche con un’occhio chiuso che bruciava.

Come ribaltare True Detective

Il 2019, per Mahershala Ali, si è aperto anche con il ritorno alle origini, con un ruolo finalmente da protagonista sul piccolo schermo. La HBO gli ha affidato il volto del detective Wayne Hays nella terza stagione della serie cult "True Detective" (in onda in Italia su Sky Atlantic). Le vicende dell’agente della polizia statale del Northwest Arkansas si sparpagliano in tre diverse linee temporali, tre epoche storiche (con tanto di pesantissimo trucco di invecchiamento per gli interpreti). In un’intervista a Variety, Ali ha raccontato che il suo ruolo era stato scritto in origine per un attore bianco ma ha convinto personalmente il creatore della serie e produttore esecutivo Nic Pizzolato a dargli questa chance: “Avrei potuto interpretare il personaggio non protagonista. Nella mia testa però pensavo ‘l’ho fatto nella mia intera carriera. Non ho mai fatto altro’. Se non accade adesso potrebbe non succedere mai più”. Gli ha inviato alcune foto di suo nonno che realmente è stato un agente di polizia tra gli anni ’60 e ’70. “Vedi - gli ho detto - noi esistevamo in quel settore, in quell’epoca. Penso che la tua storia potrebbe essere migliore se il personaggio principale fosse nero”. E la mente di "True Detective" gli ha risposto: “Ok facciamolo..”. Il risultato, secondo Mahershala, è strabiliante: “La sceneggiatura dell’episodio finale è il miglior pezzo di televisione che io abbia mai letto”, si è sbilanciato l’attore. Un giudizio secco, diretto, ridotto all’osso. L’ultimo tocco dello scultore prima che l’opera sia finita.

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