'Dove nessuno guarda', anatomia del podcast con Boreggi: "Così faccio risuonare le storie"

Cronaca
Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

Abbiamo incontrato a Roma Michele Boreggi, sonorizzatore di "Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps", serie di Sky Italia e SkyTG24 realizzata da Chora Media con la voce di Pablo Trincia. Ci ha portato nel suo studio di registrazione, raccontandoci i segreti del mestiere e la genesi dei podcast

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Michele Boreggi, classe '83, è un musicista romano. Si è affermato nel panorama dei podcast come "music and sound designer", ma preferisce la definizione di "sonorizzatore". Il suo lavoro è "far risuonare le storie", abbracciando le parole con musica e suoni. Il sonorizzatore pondera ogni passaggio sonoro, ragiona sull'opportunità dei singoli interventi di montaggio, dalla scelta di uno strumento musicale alla rimozione di un'esitazione nella voce dell'intervistato, affinché quell'abbraccio sonoro non diventi morsa. Obiettivo? Valorizzare il racconto, dargli ritmo e mordente senza tradirlo. Con Boreggi abbiamo parlato del percorso che l'ha portato a sonorizzare "Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps", di Sky Italia e Sky TG24 realizzato da Chora Media con la voce di Pablo Trincia, dei suoi ferri del mestiere, delle notti insonni passate a diventare tutt'uno con la storia e della sua vita che scorre con un registratore sempre in tasca, perché il mondo è pieno di suoni bellissimi e irripetibili ma quasi sempre siamo troppo distratti per accorgercene.

Quando è arrivata la musica nella tua vita?

Ho studiato pianoforte classico, poi da adolescente ho suonato il basso in diverse band. Sono passato al piano jazz quando ero un po' più grandicello, ma ho avuto sempre la passione per l'aspetto tecnico, ho capito che volevo stare dietro le quinte. In famiglia, c’è stata sempre la musica. Mio nonno era musicista di professione. Era nato nel 1904 e uno dei suoi primi lavori era suonare il pianoforte nei cinema muti. Anche lui, come me, sonorizzava, in qualche modo. Aveva tutto un altro tipo di approccio rigorosamente classico, ma mi piace che la vita mi stia portando in questa sua direzione. Questo dove siedo è il suo pianoforte.

 

Hai qualche ricordo particolare a cui sei affezionato?

Aveva l'orecchio assoluto e io mi divertivo a chiedergli di indovinare la nota: "Questo è un la, questo un la calante, questo un do", si andava avanti così. Riconosceva una nota dai suoni sparsi che gli proponevo. A tavola giocava sempre con le dita riproducendo ritmi di qualche opera musicale, ne ero affascinato. A parte mio nonno, ho avuto un Maestro, un incontro straordinario. Una decina di anni fa venni chiamato a registrare come tecnico al Teatro della Pergola di Firenze il primo musical di Riz Ortolani. È stato un compositore gigante di musiche per film. Qualche mese dopo mi chiamò e mi disse: "Ho saputo che lei ha la registrazione della serata, vorrei venirla ad ascoltare". Partì da lì una collaborazione che durò 3 anni: voleva recuperare le sue colonne sonore di una vita per farci un cofanetto e le riascoltai tutte con lui in persona. Fu una formazione incredibile.



Qual è il tuo lavoro oggi?

Ho lavorato in vari ambiti sempre legati al suono, cominciando dalla musica live come tecnico audio e quindi come fonico, passando per il teatro, per i lavori di postproduzione in ambito cinematografico. Ho fatto audiolibri, quelli che all'epoca si chiamavano documentari sonori, quando ancora il termine podcast era poco conosciuto, per poi arrivare in questo ambito del podcast, che è quello in cui mi sento più a mio agio, più libero. Io mi definisco sonorizzatore di podcast. Mi occupo dei suoni che vanno a completare il racconto, con la musica, con l’audio registrato da microfoni. Gioco con tutti gli elementi sonori in campo.



In che modo ti fa sentire libero?

Il mondo dei podcast mi ha sempre affascinato perché il prodotto finale è composto al 100% di suono, ti costringe a immaginare il suono della narrazione nella sua completezza, in qualche modo a essere regista. Avere la libertà di dirigere l'emozione dell'ascoltatore da una parte piuttosto che dall'altra è un privilegio. Il podcast ti dona una libertà ampia che in altri ambiti è difficile avere nella stessa misura.

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Quali sono i tuoi ferri del mestiere?

Sono tanti e non sono tutti in uno studio di registrazione. Si parte dalle interviste e un ruolo cruciale lo hanno i microfoni. Esiste un mondo di microfoni che rispondono alla realtà in maniera diversa. Con la scelta di un microfono stiamo già decidendo il colore di una voce, non servono solo a intervistare le persone ma a riprodurre i suoni del contesto, quindi l'ambiente di un'intervista o di un posto che riveste un ruolo nella storia. Dopodiché c'è tutto il lavoro di postproduzione. Entrano in scena computer e software e anche gli strumenti musicali. Uno strumento in sé è anche la voce dell'intervistato. Comincio con una fase di pulizia. Togliendo una tosse, una ripetizione, una pausa, siamo noi a decidere il ritmo di narrazione. Sembra una cosa piccola ma in realtà è gigante. È lì che inizia la comunicazione con il pubblico. Il montaggio è decisivo.

 

Da quello che stai dicendo, la sonorizzazione, quindi, trascende l'aspetto prettamente tecnico e artistico e incide sui contenuti.

L'esempio delle pause è lampante. Enfatizzano il discorso, quello che viene detto prima o dopo. Possono essere di tanti tipi. Quella naturale dettata da un'esitazione o da un momento di riflessione e di commozione, ci sono quelle che durano tanto che entrano in connessione con lo spettatore che è costretto a notarle. Lavorare con le pause è delicato, posso dire che sto ancora imparando. Alla base c'è una continua lotta con i minutaggi, con il mercato che ti richiede prodotti molto dinamici, e dall'altra parte c'è la tua etica, il voler restituire la verità di quel momento che passa anche attraverso un silenzio. Spesso e volentieri sono presente durante le interviste ed è successo più volte che ci si sia commossi insieme.

 

Cosa succede nel concreto?

 

Per come lavoro io, cerco di portarmi a casa tutto ciò che posso quando vado in missione per registrare interviste, cerco di prendere tutti i suoni in presa diretta. Alcuni specifici li ricreiamo ma l'ideale è prenderli in sede. Uno dei miei trucchi è quello di creare dei momenti di quotidianità attorno all'intervista frontale. Capto i momenti di convivialità tra autore e intervistato. La stessa presentazione è un momento prezioso che registro sempre. Ci sono suoni che sottovalutiamo, come gli uccellini che cantano, il traffico della città che entra dalla finestra. Tutto ciò che non è pura intervista già restituisce un contesto. Mentre nei film l'obiettivo è portarsi a casa una voce pulita, nei podcast un audio sporco può dare colore alla serie. Non sempre però si può creare la situazione giusta e in quel caso si lavora di "foley": registrazioni in studio o all'aperto fatte ad hoc per riprodurre una determinata scena. Parliamo di un rumore di passi, la camminata in esterna o il suono delle persone in movimento, l'elemento verbale. 

 

Quanto pesa il lavoro di un sonorizzatore in un podcast?

Rappresenta un buon 50%, se non di più in alcuni casi. A volte può aiutare una scrittura debole, in altri casi, quando la scrittura è buona, si naviga in ampio mare, in aperto oceano. Detto questo, è importante che la fase di scrittura e la sonorizzazione siano in continuo dialogo. La sonorizzazione può aiutare la scrittura e di conseguenza anche il testo può essere scritto pensando ai suoni. Questo è l'ideale, ma non sempre accade a causa dei tempi di produzione molto stretti. Pablo Trincia con cui ho iniziato a lavorare a partire da "Il dito di Dio" mi ha lasciato sempre carta bianca. Si è fidato anche della sperimentazione.




Quando c'è stata nella tua vita professionale la "svolta podcast"?

 

Il mio primo podcast importante è stato con Chora, "La città del vivi" di Nicola Lagioia e Alessia Rafanelli. Mi immersi completamente in un contesto sonoro e in un'identità sonora: la storia era importante e sofferta e c'è stato per la prima volta uno scambio tra ciò che provavo e la sonorizzazione. Parlava del caso e dell'omicidio di Luca Varani avvenuto qui a Roma ed è una storia straziante sotto molti punti di vista, scritta in maniera magistrale. Avere una scrittura così forte mi ha semplificato molto il lavoro. Già attraverso le loro parole, io ero dentro la storia e una volta che sei dentro ti viene molto più semplice comunicare quelle emozioni con il suono.

 

"La città dei vivi", passando per "Il dito di Dio" sul naufragio della Costa Concordia, fino ad arrivare a "Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps". Impossibile non notare un filo rosso. 

Il tema della cronaca nera è arrivato nella mia vita, non l'ho cercato e chiaramente ha avuto un impatto su di me e sulla mia sensibilità. Mi ha portato a farmi delle domande su quale fosse il modo giusto di sonorizzare. Oggi la cronaca nera è diventata in qualche modo un prodotto di intrattenimento che però racconta storie vere di persone che hanno sofferto, di vittime. E questo non possiamo dimenticarcelo, anche perché sono storie che ti travolgono. Io cerco sempre di camminare e sonorizzare in punta di piedi, trovare una forma rispettosa di restituire il sentimento alla base delle testimonianze. Ci sono domande che tuttora mi faccio, non penso che ci sia un manuale da seguire, c'è la propria etica e deontologia, anche quando si parla di suono, e un proprio modo di seguire la storia e di farla risuonare dentro sé stessi per poi restituire ciò che sentiamo.

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Quali sono i rischi?

Mi rendo conto che per non sfociare nella pornografia del dolore la linea è molto sottile e sfumata. Il confronto con le autrici e con gli autori, a volte anche con i diretti interessati della storia, è fondamentale. Ho avuto modo di conoscere Gildo Claps, mi ha detto delle parole molto belle sulla mia sonorizzazione e questo per me è stato un feedback molto importante. Sapere che una delle persone più vicine a questa storia in qualche modo apprezzasse non solo la professionalità della sonorizzazione ma la mia sensibilità mi ha fatto capire che almeno questa volta ho lavorato nella giusta direzione.

 

Abbiamo capito che i suoni toccano corde profonde e devono essere calibrati tanto quanto il testo, ma come interagiscono narrazione e sonorizzazione?

In genere per me la lavorazione comincia con un confronto un con gli autori. Devo capire tutto il percorso della storia, come si svolgerà e individuare i punti di riferimento forti che possano risuonare. Nel caso di Elisa Claps era chiaro che la Chiesa avesse avuto un ruolo importante nella vicenda, come anche le telefonate che sono accostate a un senso di minaccia e che hanno attraversato la vicenda. Il brainstorming è sia concettuale che di individuazione tecnica di elementi che possano risuonare. C'è anche una ricerca storica di ricontestualizzazione dei suoni rispetto al periodo in cui si svolge la vicenda. Tanto di questo lavoro è reso quasi in maniera automatica dai documenti raccolti. I contributi audio della cronaca sono anche molto importanti, e la TV. I TG dell'epoca, i programmi. Pensiamo alla centralità di "Chi l'ha visto" nel caso Claps. Portano il suono in una direzione. Poi nel momento in cui si fa un lavoro di sound design, quindi si va a aggiungere lo strato di sonorizzazione, è ovvio che bisogna tenere in considerazione in che anni siamo e che tipo di sonorità ci fossero all'epoca.

 

"Dove nessuno guarda" racconta una storia tragica e complessa. Una storia che molti conoscevano, ma non fino in fondo. Quale è stata la puntata più difficile?

Di solito sono sempre le prime perché c’è un rapporto che si sta formando tra me e la serie che sto sonorizzando, una conoscenza sia della scrittura, sia proprio degli strumenti e dei suoni che cominciano a nascere. Man mano che si va avanti con le puntate il lavoro prende vita e tu diventi uno strumento di esecuzione. Chiaramente per arrivare a quel punto c'è tanta ricerca, tante prove, tante versioni scartate. Nel caso della serie di "Dove nessuno guarda" una delle puntate più faticose è stata l’ultima, "Un ricordo non scompare", in cui abbiamo cercato di restituire un ricordo di Elisa da viva per uscire dalla narrazione della "ragazza morta". Ho cercato di entrare in connessione con la bellezza della personalità di Elisa, pura, determinata, libera. In questo senso, è stata faticosa non solo perché era l'ultima puntata e scontava la stanchezza di una lavorazione intensa, ma perché era anche la più intensa dal punto di vista emotivo. Il passaggio sonoro che è stato più faticoso è stato proprio nel momento in cui ci si apre al ricordo di Elisa, quindi parliamo degli ultimi 20 minuti di episodio in cui ho cercato di creare un letto sonoro che potesse accogliere tutte queste testimonianze e queste commozioni. È stato un vero e proprio viaggio, in cui io stesso ho sofferto. Questo è un lavoro che almeno all’inizio ti porta ad agire un po' come un chirurgo, dopo un po’ c’è il pericolo di diventare cinici e a volte è anche un’arma di difesa. Ci ho lavorato d'estate a questo podcast, avevo bisogno di una concentrazione particolare, per lo più durante la notte e la notte mi ha portato a un isolamento che mi ha aiutato a diventare tutt'uno con le storie e a metabolizzarle.

In una di queste notti è arrivata l'intuizione della sigla e l'idea di utilizzare Beethoven?

È nata nel mio piccolo studio di registrazione domestico con il mio piano Rhodes. Per Elisa all'interno della storia, non rappresenta proprio una sonata spensierata, bensì è un elemento di minaccia. Volevo restituire questa minaccia e ridare un nuovo ruolo. Ho deciso quindi di non averla in primo piano ma di camuffarla, così non ho rischiato di creare un motivetto irrispettoso. La sigla si interseca con lo squillo del telefono, con le campane della chiesa, suoni che si mescolano e Per Elisa subentra solo alla fine. Ci sono state circa 70 versioni della sigla che ho lavorato continuamente e che andavo a cambiare. 

 

70?

Ascoltavo in loop senza riuscire a smettere. Ogni volta aggiungevo qualcosa. Un mio amico mi dice che l'unico modo che ho per chiudere i progetti è abbandonarli. Ho avuto effettivamente un rapporto ossessivo con questa sigla. Sono arrivato al punto che quando riascoltavo gli episodi saltavo l'intro, perché se l'avessi riascoltata l'avrei modificata. C'era sempre qualcosa che non andava. Ci sarebbero state molte più versioni se non avessi avuto delle scadenze da rispettare. La serie è complicata perché rappresenta l'identità del podcast: è una piccola narrazione non detta, ricca dii elementi che ti fanno già intuire delle cose. Il suono della campana finale è un un indizio, un presagio. La chiesa della Santissima Trinità di Potenza ha svolto un ruolo centrale nella storia.



Ti diverte altrettanto lavorare con le immagini o dopo aver scoperto la bellezza dei podcast, dell'audio puro, non si può più tornare indietro?

 

Un'esperienza per me fondamentale è stata la realizzazione di una web serie girata a New Orleans, Shotgun Boogie. È stata di raccordo tra il mio percorso tecnico e quello più artistico dei podcast. In un anno particolare della mia vita ho deciso di partire per raggiungere amici d'oltreoceano e ho scoperto una città musicale pazzesca, coloratissima, e allo stesso tempo molto difficile e contraddittoria. Ci sono rimasto due anni. È il luogo ideale per realizzare un prodotto visual. Tra il grigiore di una società ingiusta e la bellezza sgargiante della musica. Le immagini ne fanno un'esperienza più completa ma allo stesso tempo impongono una visione e limitano la fantasia e la libertà d'interpretazione. 

Il podcast è un altro mondo: c'è il lavoro di scrittura e regia e poi la sonorizzazione che indirizza la storia ma poi chi lo ascolta deve fare i conti con le proprie immagini. L'ascoltatore è regista. Ognuno si immagina quella scena in modo diverso.

 

Qual è la quotidianità di un sonorizzatore?

Siamo circondati dai suoni ma spesso e volentieri siamo distratti. Fare un lavoro di questo tipo allena l'orecchio e la capacità di riconoscere certe sonorità. Come tanti del mio mestiere ho sempre un registratore con me. Registro suoni che incontro per caso per la mia collezione personale e non per forza per una lavorazione specifica. A volte sono suoni definiti e altri malleabili. Il primo suono che mi viene in mente quando penso a Roma è quello del nasone, dell'acqua che scorre. Ce ne sono sempre di meno. Tutte le città cominciano a assomigliarsi dal punto di vista del suono, è in corso una grande globalizzazione sonora.

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"Quanti Sapevano? - Il Caso Elisa Claps", lo speciale di Sky TG24

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