L'uomo che ha ispirato Io Capitano: "Racconto la mia odissea per parlare alla politica"

Cronaca
Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

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Mamadou Kovassi è partito dalla Costa d'Avorio nel 2005 in cerca di un futuro in Europa ed è sbarcato a Lampedusa solo tre anni dopo, attraversando il deserto e affrontando la prigionia in un lager libico. Il migrante la cui vicenda ha dato le mosse al film candidato all'Oscar di Matteo Garrone, oggi mediatore culturale a Caserta, racconta il suo viaggio a Sky TG24. E auspica che questa pellicola, oltre Hollywood, possa raggiungere la politica internazionale

Il suo viaggio è iniziato nel 2005 in Costa D’Avorio, direzione Europa. Ha attraversato a piedi il deserto, visto l’orrore di un lager libico, pregato di non morire su un barcone, e solo dopo tre anni è riuscito a raggiungere Lampedusa. “Quando hai necessità di partire, nessuno ti può fermare”, dice Mamadou Kovassi, l’uomo, oggi 40enne, che ha ispirato la storia che racconta “Io Capitano”, il film di Matto Garrone, candidato ufficiale dell'Italia al miglior film internazionale agli Oscar. “Un film sui diritti”, lo definisce Mamadou, che nella sua seconda vita lavora come mediatore culturale e attivista del Centro Sociale Ex Canapificio di Caserta: la sua storia oggi è la voce di migliaia di migranti che ogni giorno rischiano la vita affrontando un’odissea che sembra senza fine, tra sofferenze e torture, di cui siamo abituati a conoscere solo una parte. “Io Capitano”, già Leone d'Argento per la regia all'ultima Mostra di Venezia, interpretato da Seydou Sarr e Moustapha Fall, mostra senza sconti le tappe di un viaggio estenuante di due ragazzi che partono dal Senegal verso il sogno europeo. Un racconto straziante, che obbliga lo spettatore a conoscere quello che uomini e donne come Mamadou sono costretti a rischiare in nome di una speranza che diventa una ragione di vita.

Madmadou, la tua storia inizia in Costa d’Avorio e arriva fino a Hollywood. Che effetto fa?
Un’emozione incredibile. Abbiamo già fatto un lavoro importante fuori dall’Italia, girando una parte dell’America per presentare il film, da San Francisco a New York, e alcune tappe in Europa. Ma soprattutto questo film è riuscito a entrare nelle scuole, ed è stato accolto con entusiasmo: quasi ogni giorno partecipo a incontri dove racconto la storia di Io Capitano. E prima dell’Academy, posso dire che questa per me, per noi, è una grande vittoria qui in Italia.
 

Come andò il primo incontro con Matteo Garrone?
È successo nel 2020, tramite una giornalista che gli ha dato il mio numero dopo aver ascoltato la mia storia. Lui mi chiamò dicendomi: "Voglio scrivere una storia sull’immigrazione, so che ne hai una. Vorrei che venissi da me a Roma a raccontarmela, e iniziamo a scriverla insieme". Cosi è iniziato tutto. Gli sono grato per avermi dato la possibilità di raccontare tutto quello che avevo vissuto in prima persona, e per avermi ascoltato.

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Matteo Garrone e Mamadou Kovassi.
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Non deve essere stato facile ripercorrerla e rivederla su uno schermo.
No, è stato doloroso. Ho attraversato il mio passato, e rivivere alcune scene mi ha fatto provare anche rabbia, soprattutto rispetto alle torture e alle violenze che il film mostra. Questo film racconta la mia storia ma anche la tragedia di tante altre persone che non ce l’hanno fatta, ed è importante essere anche la loro voce, rappresentarle. I vivi e i morti. E far sì che tutti sappiano cosa sono costretti a passare.
 

Quando si parla di migrazione si pensa soprattutto ai barconi, al mare. La tua storia ha raccontato altre parti di questo viaggio che conosciamo meno, dai lager libici al deserto. 
Sì, il film ha raccontato quello che è successo prima dell’arrivo in Europa, e non solo via mare. È importante non parlare solo degli sbarchi, ma di quanto e come soffriamo prima di arrivare, per chi ci arriva vivo, a quel traguardo: una sofferenza difficile da spiegare a parole, ma “Io Capitano” è riuscito a farlo, anche se raccontando solo una parte di quel calvario. Alcune parti sono state smorzate, edulcorate, per poter essere viste da un pubblico più ampio possibile. L’obiettivo era far capire quali atrocità siamo costretti a subire prima di arrivare in Europa. Per esempio, mostrare cosa succede in una prigione libica.
 

Prima di partire, ti saresti mai aspettato un'odissea come quella che hai vissuto?
No, non potevo immaginarlo. Ma appena il viaggio è iniziato ho capito subito che sarebbe stato un viaggio crudele, di morte. Questo film si vedrà anche in Africa, in 20 Paesi, dove andremo a presentarlo e a spiegare che questo è un viaggio della morte. Sappiamo che non fermerà le persone che hanno urgenza di partire, ma almeno saranno a conoscenza delle torture a cui andranno incontro.
 

Che ruolo pensi dovrebbe avere la politica?
Ci vuole una politica concreta, che rispetti i diritti delle persone. Il diritto di partire e il diritto di rimanere. Serve la possibilità di avere accesso a un canale di ingresso sicuro. Aiuterebbe anche a combattere i trafficanti di esseri umani. In Paesi come la Libia le persone vengono usate come merce. Sui giornali leggiamo sempre delle vittime del mare, ma c’è anche chi non arriva neanche al mare e muore torturato o attraversando il deserto. Questo film vuole essere una voce fuori dall'Africa, che speriamo arrivi anche alla politica internazionale.

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Una scena del film "Io Capitano".
Una scena del film "Io Capitano". - ©Ansa

Hai detto che quando le persone sono spinte dall’urgenza di partire, non hanno paura di rischiare la vita.
È così. Quando sei spinto da quella urgenza, niente ti può fermare, non hai paura di affrontare il deserto con 50 gradi, né le onde del mare. Sei spinto da un sogno, quello di un futuro migliore, che è più forte di qualsiasi cosa. È come essere attratti da una calamita.
 

Cosa ricordi della prigione libica in cui sei stato trattenuto?
Ci sono stato quattro volte. Ti prendono, ti sbattono dentro, e per uscire sei costretto a pagare. Si tratta di veri e propri lager, campi di concentramento di cui spesso anche lo Stato ignora l’esistenza. Dentro ti fanno di tutto, e se non dai loro i soldi, o ti torturano fino alla morte o ti lasciano nel deserto, dove dopo un paio di giorni di camminata non si può sopravvivere. Di queste morti nessuno sa, nessuno parla.
 

Dopo sei riuscito a trovare lavoro, sempre in Libia...
Sì, un lavoro come muratore che mi ha permesso di sopravvivere. Dico sopravvivere perché non c’è mai un momento in cui ti senti al sicuro. Non ero più in prigione, ma di notte dormivo in una casa in costruzione dove non c’erano nemmeno la porta e le finestre. Possono venire a prenderti in qualsiasi momento. Anche quella fuori dai lager è una vita dolorosa.
 

L’ultima parte di viaggio è stata la traversata via mare verso Lampedusa.
Nel mio caso è durata tre giorni. Non sono arrivato direttamente a Lampedusa, perché sono stato salvato dalla Guardia Costiera italiana e da alcuni pescatori che hanno chiamato i soccorsi. Il salvataggio delle persone che stavano affogando è un ricordo indelebile. Senza la guardia costiera oggi non sarei qui.
 

C’è una parte di storia che il film non racconta: quello che succede una volta arrivati sulle coste europee, per chi sopravvive.
Esatto, anche quella è una storia dura, difficile, che andrebbe raccontata. Riuscire a ottenere un permesso di soggiorno, trovare un lavoro, cercare di integrarsi nella società. Si arriva qui senza niente e nessuno. Io stesso ci ho messo cinque anni prima di ottenere un permesso di soggiorno, ho dormito fuori per mesi. La politica deve capire che più c’è accoglienza, più si favorisce integrazione e quindi il contrasto alla criminalità.
 

Oggi lavori come mediatore culturale e sei attivista del Movimento Migranti e Rifugiati.
Castel Volturno e Caserta rappresentano un territorio molto difficile, dove stiamo costruendo percorsi di inclusione. C'è molto lavoro da fare, ma sono convinto che insieme si possa costruire una società in cui tutti abbiano dignità di vivere. Questa,  oggi, è la mia lotta.

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