17 storie di donne vittime di stupro, ma anche di "vittimizzazione secondaria". La mostra è allestita al palazzo di Giustizia di Milano fino all'11 novembre
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- Com'eri vestita è l'adattamento italiano di un'installazione ideata all'università del Kansas. Nel nostro Paese è organizzata da Libere Sinergie.
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- Scopo di questa mostra è sensibilizzare sul concetto di "vittimizzazione secondaria" che, per le persone che hanno subito episodi del genere, rappresenta una seconda violenza.
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- La vittimizzazione secondaria avviene ogni volta che qualcuno mette anche involontariamente in relazione la violenza subita con una presunta responsabilità della vittima stessa, come fosse una colpa.
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- Questo comportamento si manifesta con tutta una serie di domande inopportune come quella che dà il nome alla mostra "com'eri vestita?", oppure altre come "Erano jeans attillati?" "Ti è piaciuto?" "Gli hai detto di smetterla e che non volevi?".
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- Si tratta, ovviamente, di domande che contengono pregiudizi e stereotipi. Come si evince dalla mostra, il vestiario non è un deterrente per evitare la violenza sessuale: queste donne indossavano indumenti semplicissimi, jeans e un maglione a collo alto, un pigiama, un tubino nero, un vestito con un fiocco, un camice da lavoro, una tuta.
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- Ad ognuno dei vestiti è affiancata la domanda inquisitoria, ma anche la storia di ciò che è accaduto, così da sensibilizzare chiunque legga sul tema.
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- "Avevo 15 anni e lui era un amico dei miei genitori. Una sera tutti insieme siamo andati a una festa; quando mi sono poi accorta di aver dimenticato degli addobbi lui si è offerto di accompagnarmi a casa per recuperarli. Ha cambiato strada e da quel momento ho capito che stava succedendo qualcosa di brutto. Si è fermato in una zona isolata e mi ha stuprato. L'ho supplicato di smetterla, ho pianto, ma ero bloccata. Di ritorno alla festa ha fatto finta di niente, ha riso e scherzato. Mi sono sentita umiliata e sporca come mai nella vita".
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- "Finito il lavoro, un lavoro che mi piaceva molto, sono salita in auto per rientrare a casa. Saranno state le 22.30, era buio e sono riuscita a parcheggiare vicino a casa. Pochi metri... cerco le chiavi e in un attimo vengo sbattuta a terra, lui che mi sta sopra e mi schiaccia il viso sul marciapiede. Urlo e provo a dimenarmi, tutto inutile, non mi sente nessuno. Ricordo le luci dei lampioni e quella breve, ma infinita, distanza che mi separava dal portone di casa mia".
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- "Una famiglia di borghesi intellettuali, impegnati nel sociale con tanti amici che frequentavano casa nostra e con i quali si facevano lunghe discussioni filosofiche. Un clima gioioso e ricco di pensieri nuovi. Una casa grande e con molte stanze. Ha aspettato il momento giusto e il caro amico di famiglia mi ha spinta dentro una di queste stanze e mi ha violentata. L'ho detto a mio padre, lui l'ha picchiato e l'abbiamo denunciato. Per molto tempo mi sono isolata e ho dato la colpa alla famiglia, ma poi ho capito chi era il colpevole vero".
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- "Una vita nel buio, una vita di impegno per essere considerata al pari degli altri e, finalmente, una laurea in Legge. Un tailleur grigio, camicia bianca e così inizio il lavoro da sempre sognato. Ma un collega mi ha violentata e, nel buio del mio mondo, mi ha sussurrato: sei una povera cieca..."
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- "Lo conoscevo, faceva parte della mia compagnia, era considerato lo 'sfigato', timido e riservato, ma molto rispettoso. Ho accettato il passaggio a casa, non era tardi. Si è fermato in un parcheggio isolato e ha chiuso tutte le portiere: era una belva con uno sguardo feroce, l'ho spinto via quando ha cercato di baciarmi, ho urlato, ma lui era sempre più violento. Mi ha stuprata e ciò che ricordo è la mia voce rotta dal pianto. Non ha avuto pietà nemmeno quando mi ha lasciata davanti a casa piegata in due dal dolore e dalla vergogna".