I pm si sono espressi sul tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni, che si era autodenunciato dopo aver accompagnato alla clinica Dignitas di Zurigo una donna malata terminale di cancro e un 82enne bloccato a letto da una forma grave di Parkinson. Sono stati ritenuti "non punibili" come aiuto al suicidio anche i casi in cui manca come presupposto il fatto che il malato sia attaccato alle macchine per sopravvivere. Ora il gip dovrà decidere se archiviare, disporre nuove indagini o l'imputazione coatta per Cappato
La Procura di Milano ha chiesto l'archiviazione dell'accusa di aiuto al suicidio per Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni e candidato alle suppletive per il Senato a Monza, sui casi delle due persone che ha accompagnato a morire col suicidio assistito in una clinica svizzera per i quali si era autodenunciato nel capoluogo lombardo. Non solo: la Procura, con un’"interpretazione" più estensiva dell'ormai nota sentenza della Consulta del 2019 sul caso dj Fabo, allarga ancora di più la possibilità del suicidio assistito: il malato terminale può scegliere di essere aiutato a morire anche se non è attaccato a macchine che lo tengono in vita, se questo tipo di trattamento rappresenta solo "accanimento terapeutico". E chi gli dà supporto, secondo i pm, non è punibile. Ora il gip dovrà decidere se archiviare, disporre nuove indagini o l'imputazione coatta per Cappato. Per i pm, se il giudice non accogliesse la loro linea potrebbe mandare di nuovo gli atti alla Consulta, che dovrebbe sciogliere l'ennesimo nodo sul tema.
I due casi di Romano ed Elena
Cappato era stato indagato, tra agosto e novembre 2022, per aiuto al suicidio, dopo essersi autodenunciato per aver accompagnato alla clinica Dignitas di Zurigo prima Elena Altamira, 69enne veneta malata terminale di cancro, e poi Romano, 82 anni, ex giornalista e pubblicitario, relegato in un letto da una forma grave di Parkinson. Era stato già Cappato, portando Fabiano Antoniani nella struttura svizzera, il motore del procedimento che, passando per un'altra richiesta di archiviazione, poi per un'imputazione coatta e un processo storico a Milano, si è chiuso con la sentenza del 2019 della Corte Costituzionale. Un verdetto che ha aperto la strada al suicidio assistito, in assenza di norme specifiche, e ponendo 4 paletti: il malato che ne fa richiesta deve essere affetto da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e tenuto in vita artificialmente da trattamenti di sostegno vitale. Proprio quest'ultima condizione mancava nei due casi di Romano ed Elena su cui ha indagato la Procura milanese con acquisizioni di filmati, documenti, testimonianze e consulenze mediche. Romano, come ha raccontato la moglie in uno dei verbali agli atti, "si opponeva fermamente all'idea" di essere sottoposto alla "alimentazione forzata". Ed Elena, che in passato aveva accudito padre, madre e fratello, aveva capito, ha spiegato il marito, "quanto fosse atroce morire per soffocamento".
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La decisione della Procura
Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, lo stesso magistrato che si occupò del caso Fabo, e il pm Luca Gaglio, si legge nella richiesta di archiviazione, hanno ritenuto di dare una "lettura costituzionalmente orientata" del reato di aiuto al suicidio, alla luce "degli articoli 2 e 32" della Costituzione, ossia quelli sui diritti inviolabili dell'uomo e sul diritto alla salute, della "sentenza" della Consulta del 2019 e della legge 219 del 2017 sul consenso informato. Un'interpretazione che spinge i pm, col coordinamento del procuratore Marcello Viola, a ritenere "non punibili" come aiuto al suicidio anche quei casi in cui manca come presupposto il fatto che il malato sia attaccato alle macchine per sopravvivere. E ciò, in particolare, quando il paziente "rifiuti trattamenti" che "sì rallenterebbero il processo patologico e ritarderebbero la morte senza poterla impedire, ma sarebbero futili o espressivi di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non dignitosi secondo la percezione del malato, e forieri di ulteriori sofferenze" anche "per coloro che lo accudiscono". Non solo Marco Cappato non ha commesso un reato, "ma anzi" ha consentito, per i pm, "il concreto esercizio del diritto all'autodeterminazione" di due persone che avevano scelto di morire e che non erano "in grado di esercitare" quel diritto "autonomamente".
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Cappato: "Confermato il valore della sentenza della Consulta"
"Si conferma così il valore della sentenza della Consulta, nel poter dare risposta concreta ai pazienti irreversibili che chiedono aiuto medico per terminare la propria vita ponendo fine a sofferenze insopportabili, anche in assenza di una legge specifica che comunque non potrebbe andare contro i principi costituzionali", ha commentato Cappato. "La richiesta di archiviazione da parte della Procura di Milano (procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e pm Luca Gaglio) nei miei confronti è una buona notizia. Resto in attesa di conoscere con i miei legali le motivazioni", ha aggiunto. "La decisione della Corte costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo - spiega ancora Cappato - ha evidenziato dei requisiti affinché un malato possa accedere all'aiuto alla morte volontaria. I malati che ho aiutato e per i quali mi sono autodenunciato erano incurabili, in una fase delicata delle proprie patologie che avrebbe determinato l'impossibilità di esercitare il loro volere, ovvero quello di autosomministrarsi un farmaco per dire basta alle proprie sofferenze".
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Gallo: "Mancanza di volontà politica di emanare una buona legge"
"Attendiamo di conoscere le motivazioni della richiesta di archiviazione formulata dalla Procura di Milano e cosa deciderà il gip - ha aggiunto Filomena Gallo, segretaria nazionale Associazione Luca Coscioni e coordinatore del collegio di difesa di Marco Cappato - . L'obiettivo della disobbedienza di Marco Cappato è quello di fare chiarezza affinché un malato pienamente capace e cosciente delle proprie scelte nelle condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale possa decidere senza rischi legali per la propria famiglia". "Tutto ciò è determinato dalla mancanza assoluta di volontà politica nel nostro Paese - ha concluso Gallo - di emanare una buona legge che parta dalla sentenza della Corte e che riconosca a tutti i malati che ne fanno richiesta il pieno rispetto della libertà di scelta".