Tragedia Assago, tra gli scaffali fa capolino la rimozione collettiva
CronacaLa malattia psichiatrica grave si accomoda in palcoscenico solo quando ci scappa il morto o c’è spazio per la “notizia”, poi tutto rientra in un ovattato regime di discrezione che sembra convenire a tutti
In un centro commerciale, teatro massimo di vita quotidiana, è andata in scena la malattia psichiatrica grave, mostrando tutto il suo tremendo potenziale nascosto.
Pure nella sfortuna, non poteva esservi luogo simbolicamente più appropriato, perché è difficile trovare un fenomeno universale e ordinario quanto il disturbo psichico, in tutte le sue forme.
Quello che persino i social -capaci di esibire finanche i disturbi delle zone più intime del corpo e costruirvi sopra lucrose narrazioni- ritengono indegno di un palcoscenico.
Fa paura, la malattia mentale, inoltre è antiestetica, sporca, priva di epicità, inutile, poco funzionale ai disegni di chi vive inventando stupore. Meglio tenerla nascosta, al pari delle cose che i bambini non devono sapere, ma è come nascondere una mongolfiera nella pentola del sugo, i malati psichiatrici sono tanti, le persone assistite dai servizi specialistici nel 2020 arrivavano a ottocentomila. Tra queste ve ne sono anche di gravi e di gravissime. Dal computo è escluso un cospicuo numero di individui che si muovono sul confine -difficili da censire- forse persino più grande di quello dei malati ufficiali, ma vanno sommati parenti, amici, persone care. Un cerchio che diventa grande, inglobando milioni di persone in tutta Italia.
Un problema che tocca tutti
Purtroppo, però, la malattia psichiatrica grave si accomoda in palcoscenico solo quando ci scappa il morto o c’è spazio per la “notizia”, poi tutto rientra in un ovattato regime di discrezione che sembra convenire a tutti. Meno che alle famiglie dei malati, un fiume dal bacino enorme, eppure silenzioso, educato, che scorre accanto alle nostre vite mimetizzandosi per non disturbare, talvolta per vergogna, assumendo su di sé, per conto della famosa “società”, un problema che tocca tutti, anche coloro che non c’entrano nulla, a cominciare dal povero Luis Fernando Ruggeri, privo di colpe, se non quella minuscola quota che spetta a ciascuno dei sessanta milioni di connazionali di Andrea Tombolini, l’aggressore, l’altra vittima.
I veri malati psichiatrici non capiscono di esserlo, lo percepiscono indirettamente, perché sentono che a loro è negato ciò che ritengono accessibile agli altri, per questo “invidiano” la loro felicità. Un ammalato psichiatrico è mosso dai medesimi desideri di tutti gli altri esseri umani, sente però di non poterli soddisfare a causa di qualcosa di “diverso” che pone un muro tra sé e gli altri. Una sofferenza intollerabile, che priva l’esistenza delle finalità che permettono alla vita di andare da qualche parte, di realizzare degli scopi.
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Le famiglie dei malati, sentinelle insostituibili
Due anni fa una madre, che mostrava chiari segni di disturbo grave, aveva ucciso il suo bambino, prima di togliersi la vita. Familiari, amici e vicini di casa, malgrado i problemi mentali della donna fossero palesi, difficili da ignorare, si dichiaravano sicuri che quella donna non avrebbe mai potuto fare male al suo bambino. “Lo amava troppo”, insistevano. Ma quelle persone, di certo in totale buona fede, parlavano della mamma di prima, di quando non era stata ancora ghermita dal disturbo mentale. Il quale esiste, “acquattato, faticoso da accettare e da amministrare, sia per il portatore che per i suoi cari, i quali ne avvertono le turbolenze ma non sempre riescono a capire cosa fare, perché è tremendamente complesso rapportarvisi. Si vive sperando in tempi migliori, e quando si nota anche un piccolo segnale di normalità, il cuore si allarga, ma purtroppo è proprio in quei momenti che qualcosa può sfuggire, perché si è troppo stanchi e si desidera una tregua con tutte le proprie forze. In quei frangenti, quelli in cui la speranza sembra crescere, si abbassa la guardia. Niente di più umano”. Così scrivevo allora, commentando quell’infanticidio-suicidio.
Se fatti tanto estremi non si verificano a tutte le ore, è perché ci sono le famiglie dei malati, sentinelle insostituibili che dovremmo pagare di tasca, e che a loro volta si accontenterebbero di avere servizi pubblici più efficienti e meglio presidiati, soprattutto in alcune zone del Paese. Per questo, prima che si chiuda frettolosamente, come accade in questi casi, il sipario sulla toccante vicenda di Assago, bisogna rammentare che in quel centro commerciale si è riproposta una questione ineludibile, la necessità di ripensare i servizi psichiatrici dell’intero territorio nazionale, ponendosi come obiettivo primario la messa in salvaguardia, attraverso un serio affiancamento, delle famiglie che, spesso a mani nude, devono affrontare drammi soffocanti e continuativi, senza potersi concedere un attimo di distrazione.
Un dovere ineludibile verso chi sta male e verso coloro che, per conto nostro, se ne prendono cura, in un Paese in cui ammalarsi di cancro continua a essere molto meglio che incappare in un disturbo mentale.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/