Contenuti fake per nutrire i chatbot: così viaggia la disinformazione

In “Autocrazie”, la giornalista Anne Applebaum spiega come dittature e democrazie illiberali facciano ricorso a un variegato arsenale di strumenti per mantenere e consolidare il loro potere. Fra essi, un ruolo nient’affatto secondario lo svolge la disinformazione, in particolare quella creata grazie all’intelligenza artificiale. Comportamenti come quello di minare la fiducia nel sistema, screditare gli avversari, influenzare le elezioni con notizie, audio e video contraffatti, sono sempre esistiti ma l’AI ne aumenta grandemente efficacia e dimensioni degli stessi. Qualche esempio? Il falso video del presidente ucraino Zelensky che invita i compatrioti ad arrendersi all’invasore russo, un falso audio con la voce dell’ex presidente americano Joe Biden, in cui veniva consigliato agli elettori di non andare a votare per le primarie del New Hampshire, le decine di migliaia di post sui social media, con contenuti fake creati dall’AI, usati per attaccare il governo francese, “reo” di sostenere l’Ucraina, per limitarci ai casi più noti al pubblico occidentale. Ma esempi di disinformazione favorita dalla tecnologia si possono trovare dappertutto: in America Latina, in Asia, in Africa, dove poco prima delle elezioni presidenziali nigeriane del 2023 è stato diffuso un audio artificiale in cui alcuni candidati sembravano mettersi d’accordo per truccare il voto. E non solo sono ubiqui, ma diventano sempre più sofisticati: se il primo video di Zelensky del 2022 portava chiare le stimmate del deepfake, la precisione e la credibilità degli ultimi modelli di generazione video, come Sora di Open AI o Veo 3 di Google fanno sì che sia diventato praticamente impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. L’Unione Europea, come sempre, prova a metterci una pezza e, nell’AI Act, il regolamento approvato nel 2024 che prova a delimitare gli utilizzi leciti dell’AI, prevede fra l’altro che contenuti come immagini, video e audio deepfake – cioè che sembrano rappresentare persone o eventi reali - debbano essere chiaramente contrassegnati come tali . A parte l’aspetto regolatorio, fin dal 2015 l'Ue dispone di un team, la East Stratcom Task Force che fa capo al Servizio Diplomatico dell’Unione e che tramite la piattaforma Eu vs Disinfo, si occupa di denunciare e combattere la disinformazione online, svolgendo un lavoro simile a quello di associazioni no profit private come NewsGuard. Una delle ultime minacce identificate riguarda la disinformazione diffusa attraverso i chatbot, che secondo gli esperti si sta affiancando sempre più a quella che viaggia sui social media. In questo caso la tattica usata dai “malicious actors” è quella di inondare il Web di articoli contenenti notizie false in varie lingue in modo che almeno alcuni di questi vengano poi ripresi dai chatbot e confusi per fonti attendibili, influenzando le risposte fornite agli utenti. Un report diffuso da NewsGuard nel settembre di quest’anno mostra ad esempio come sei dei dieci principali chatbot abbiano preso per buona la notizia che il presidente Zelensky avesse oscurato Truth Social, il social network di Donald Trump. Notizia falsa, ma riportata e amplificata da un network di siti facente capo, secondo gli analisti, a una sofisticata operazione di propaganda russa. Sempre secondo il report, la percentuale di notizie false su temi di attualità diffusa dai principali chatbot sarebbe salita dal 18% del 2024, al 35% del 2025. Combattere questo fenomeno può a volte sembrare una fatica di Sisifo, pari a quello di chi cerca di svuotare con un cucchiaino il mare. Tuttavia, qualcosa è possibile fare. Oltre a imporre la presenza di watermark e diciture che contrassegnino i contenuti fake o sviluppare strumenti AI che aiutino a distinguere i contenuti veritieri da quelli dubbi si può lavorare molto, ad esempio, sulla alfabetizzazione mediatica o media literacy degli utenti, insegnando a “leggere” le notizie e dubitare di tutto quello che sembra troppo bello - o brutto - per essere vero, cercando di inquadrare i fatti all’interno di un contesto più ampio e sfruttando il lavoro degli esperti di fact-checking per una verifica formale. Perché no, rivalutando anche il ruolo di giornalisti e media seri che, con tutti i loro limiti e difetti cercano con onestà intellettuale di individuare ancora un confine fra ciò che è vero e ciò che non lo è. In fondo, come citare ancora il libro di Applebaum, screditare la categoria è uno dei metodi più sicuri e testati da autocrati e aspiranti dittatori di ogni genere per mantenere ed accrescere la loro presa sulla popolazione.

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Federico Guerrini