Deadbot: chattare con i morti grazie all’IA. Il business dell'immortalità virtuale

Invece di dirsi addio, continuare a chattare. Grazie agli ultimi sviluppi tecnologici è sempre più facile continuare a parlare con una persone cara che è venuta a mancare. O almeno illudersi di farlo. In realtà, si dialoga con un simulacro digitale dell’estinto, un “deadbot” . Un software di intelligenza artificiale a cui sono stati dati in pasto audio, foto, video e testi prodotti dallo scomparso e con cui è possibile conversare, un po’ come si farebbe con ChatGPT. Solo che, a differenza di quanto accade in una normale conversazione, nel momento in cui si elabora un lutto entrano in gioco elementi affettivi e relazionali molto forti, di cui va tenuto conto per evitare possibili abusi e manipolazioni. Già, perché diverse aziende hanno già iniziato ad inserirsi in quello che appare un mercato molto promettente e redditizio. L’azienda sudcoreana DeepBrain AI, ad esempio, ha di recente annunciato il lancio di “re;memory2”, un servizio di commemorazione virtuale che, a suo dire, “ricrea fedelmente i membri della famiglia defunti”. Secondo l’azienda, basta una foto e un clip audio di 10 secondi, per realizzare un avatar dello scomparso. StoryFile, di Los Angeles, è specializzata in rievocazioni storiche – per esempio la creazione di avatar di veterani della seconda guerra mondiale che raccontano la loro esperienza – ma fornisce anche un servizio personalizzato a famiglie che vogliono incidere le memorie di chi presto non ci sarà più. Rischi post-mortem La società californiana Here After AI si rivolge soprattutto a chi intende lasciare un “lascito digitale” ai propri eredi: una specie di biografia interattiva che gli eredi potranno consultare, facendo ricerche e ponendo domande. A cui l’avatar risponderà con la voce e il modo di conversare del defunto. Se, a dirlo così, può sembrare vagamente inquietante, forse è perché lo è. Le intenzioni possono essere nobili, ma ci sono parecchie cose che possono andare storte. Come scrivono Tomasz Hollanek e Katarzyna Nowaczyk-Basińska, due ricercatori del Leverhulme Centre for the Future of Intelligence dell’Università di Cambridge in un paper pubblicato di recente, per evitare problemi quando si crea un deadbot bisogna tener conto dei punti di vista di tutte le parti in causa: in particolare di quello di chi fornisce i dati e di chi è il destinatario della simulazione ed interagisce con essa. Ed è importante che venga rispettata la dignità e la sensibilità di ciascuna di queste controparti. Per esempio, non è irrealistico immaginare uno scenario in cui la persona rappresentata dal chatbot abbia preso l’iniziativa di farsi immortalare senza coinvolgere i familiari. E che questi si trovino poi perseguitati da notifiche e reminder ad interagire col deadbot, pur non sentendosi a proprio agio a farlo. D'altro canto, nel momento in cui l’avatar venisse invece ricostruito a posteriori dai parenti, magari basandosi su quanto visibile sui social media e su materiali non pubblicati, chi garantisce che l’immagine così ricostruita del defunto sia proprio quella che avrebbe voluto lasciare ai posteri? Per non parlare dell’aspetto più inquietante, ovvero che le società produttrici di chatbot lucrino sulla vulnerabilità e sul desiderio di rimanere agganciati di persone che hanno subito una perdita. Non garantendo accesso perpetuo al deadbot, ma proponendo invece un servizio su abbonamento. “Tua madre ti aspetta per parlare con lei, rimpolpa il tuo credito!”. Oppure inserendo subdolamente dei suggerimenti commerciali basati sulle preferenze, vere o presunte, del caro estinto. A parte questi ovvi abusi, sull’impatto squisitamente psicologico di questa pratica su chi resta, è difficile dare un giudizio netto. Per alcuni può essere un motivo di conforto o un modo per non dimenticare le fattezze e i modi di chi è scomparso, pur avendo ben presente che si tratta solo di un simulacro del reale; per altri c’è il rischio di sviluppare dipendenza e non riuscire mai ad elaborare il lutto e andare avanti con la propria vita. Secondo Amy Kurzweil e Daniel Story, filosofo, sono rischi che si possono evitare co-creando il chatbot in maniera partecipativa, come se si stesse dando vita a una pièce teatrale. In questo approccio, l’obiettivo non è creare un avatar il più simile possibile all’originale, ma a una rappresentazione selettiva del reale. Un processo creativo che in qualche modo, secondo gli autori, emanciperebbe dal rischio di dipendenza. Può darsi che nell’accettazione o meno di questi artefatti, e sul loro impatto psicologico, giochino anche fattori culturali. In Cina e Corea del Sud sembra già esserci un mercato vivace per questi prodotti. In Cina, in particolare, alcune agenzie di pompe funebri hanno iniziato ad offrire una versione digitale del caro estinto come parte del “pacchetto” di onoranze. Giusto? Sbagliato? Lo scopriremo solo… dopo.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Deadbot: chattare con i morti grazie all’IA. Il business dell'immortalità virtuale