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"Paolorossi", il Mundial e quei gol di pomeriggio

Sport

Paolo Volterra

©Fotogramma

Paolorossi era una parola sola, niente nome né cognome, nell’estate mondiale del 1982, un trionfo che è stata la rivincita dei gracili. Paolorossi era resilienza, prima ancora che inventassero quel termine

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Quel Mundial è stata la rivincita dei gracili, di quelli che sanno farsi concavi e convessi per abitudine e per strategia più che per necessità, quelli che magari non hanno letto L’Arte della Guerra, ma sanno benissimo che per vincere non sempre serve combattere: talvolta basta sgusciare via al momento giusto. Pablito si nascondeva, liquido e presente, fra le maglie dorate delle altissime torri brasiliane, e poi con due tocchi sporchi e cattivi, se ne andava a segnare, a correre gridando verso il centrocampo (LA FOTOSTORIA DI ROSSI - CHI ERA IL "TRASCINATORE GENTILE").

 

Paolorossi era una parola sola, niente nome né cognome, nell’estate mondiale dell’82. Se per caso si era in vacanza all’estero la doppia domanda era inevitabile: Italiano? Paolorossi? E ci si riempiva d’orgoglio per una patria che riconoscevi più dalle triplette di un centravanti che dagli euromissili piazzati in Sicilia: eterno paradosso, Paese Italia, fra tressette e microchip (IL RICORDO SUI SOCIAL - IL CORDOGLIO DEL MONDO DELLO SPETTACOLO).

Enzo Bearzot aveva messo insieme una nazionale di calzini abbassati e di calzoncini cortissimi: undici mutande bianche (più le riserve) che lasciavano scoperte gambe poco palestrate: magri mulinelli capaci di magie, come quelle di Bruno Conti, o quadricipiti da pacchetto di mischia, come quelli di Antonio Cabrini.

In Spagna c’era una squadra di ventenni, trentenni e anche di quarantenni - uno solo: Dino Zoff, portiere e capitano - tutti fumantini e permalosi, infuriati un po’ con i tifosi e soprattutto con i giornalisti, che male non fa, perché ricompatti il gruppo e sbollisci la rabbia. Erano incazzosi, sì, ma non aggressivi. Piacioni senza selfie, effimeri con pudore, imbarazzati nella posa da figurina, in bilico fra la disfatta e l’impresa.

 

Italia-Brasile 3-2 è stato il grande idillio, l’ermo colle di Bearzot e dei suoi. Ma la semifinale con la Polonia è stata la prova che tutto ormai era già scritto, in versi e in prosa: “su quel cross di Conti si leggeva: basta spingere”, ha detto Pablito, e l’assist diventa opera d’arte o materia di esame.

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Paolorossi è stato il nostro pomeriggio di luglio, televisori grossi come armadi a bruciare sotto il sole giaguaro delle tettoie che toglievano metà della visuale: “Spostalo dai, che ci va su l’ombra e non si vede niente!”. Paolorossi era polvere e altare, incenso e supplizio, lampo e miraggio.

 

Paolorossi era la rivincita dei gracili, di noi con le ginocchia sbucciate che ci si spaccava sull’asfalto per un tackle sbagliato e poi si andava a casa a fare la doccia: the caldo manco a parlarne.

 

Paolorossi era resilienza, prima ancora che inventassero quel termine. Era il nostro passaporto, il nostro gene impreciso, la nostra tumultuosa identità: Italiano? Sì: Paolorossi

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