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Ted Lasso, la recensione della terza (e ultima) stagione. Una commovente partita vinta

Serie TV

Benedetta Pellegrini

©IPA/Fotogramma

La serie, giunta al suo terzo e ultimo capitolo, si conferma un progetto sofisticato, capace di trattare con sapiente garbo e profondità l’alternanza tra lacrime e risate. Ora, entrambi protagonista e serie tv se ne vanno, e lo fanno nel migliore dei modi

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Il viaggio di Ted Lasso è giunto al termine, sia quello della serie che quello dell’omonimo protagonista, senza mai perdere il ritmo, allentare i tempi comici o scendere a patti con l’essenziale lavoro del contagocce emotivo. Ogni storyline è stata condotta ad una degna conclusione, ciascun cerchio si è chiuso ed è ormai tempo di partire. La serie, che in questa terza stagione si è concessa qualche altalena narrativa - frettolosità incalzata dalla pressante risoluzione finale - ha portato avanti con efficacia il lavoro cominciato tempo prima, fatto da una tanto complessa quanto azzeccata alternanza tragicomica, un sapiente uso (e mai abuso) dell’ironia citazionistico-postmoderna e di una coerente crescita progressiva, o involutiva, dei personaggi, sia nella loro coralità, come squadra di calcio, che nella loro spiccata singolarità. La serie, creata da Bill Lawrence e dallo stesso Ted Lasso, ovvero Jason Sudeikis, è disponibile su Apple TV+ (visibile anche su Sky Glass, Sky Q e tramite la app su Now Smart Stick)e si è conclusa il 31 maggio 2023 con il dodicesimo episodio della terza stagione: “Addio, vi salutiamo”.

Come siamo arrivati fino a qui

Ted Lasso (Jason Sudeikis) è un allenatore di football americano che nella prima stagione viene selezionato da Rebecca Welton (Hannah Waddingham) per allenare il club di calcio AFC Richmond. Senza sapere assolutamente nulla di calcio ma custodendo in sé l’ossimoro di un’ingenuità vincente, Ted decide di accettare l'incarico e trasferirsi a Londra, ignaro che il suo ingaggio è un tentativo della Welton di screditare l'ex marito Rupert (Anthony Head), precedente proprietario del Richmond. La coerenza stilistica della serie, sceglie di mostrare fin da subito il difficile, realistico e graduale incastro tra le esuberanti iniziative di Ted Lasso, sia nei rapporti umani che sul campo di gioco, con il nuovo mondo che lo circonda. Arrivati a questa terza stagione, Ted Lasso non sa ancora chi è Maradona, preferisce aspettare che il libro di strategie calcistiche esca al cinema e, quando gli dicono che il fantasista Zava ha lasciato la Juventus, pensa che si tratti di mitologia greca; eppure il bizzarro modo di fare di Ted, una genuina e toccante rappresentazione del fair play, ha progressivamente coinvolto e convinto tutti, Welton compresa. Lo stesso corpus di battute aggrovigliate e la totalità degli antifrastici giochi di parole, che prima facevano di Ted una macchietta felicemente isolata, si sono tramutati in complicità e responsabilità collettiva, dove ciascuno ha imparato a fare da ponte per il ritmo umoristico dell’altro, esattamente come per il passaggio della palla da piede in piede fino alla rete.

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«Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince», diceva l’ex calciatore Gary Lineker. Eppure l’allenamento di Ted Lasso, che del calcio, probabilmente, non conosce neanche l’essenzialità espressa nella citazione, si è basato esattamente sul suo contrario: è la complessità del mettersi in gioco, del crescere e dell’apprendere continuamente, con ironia, modestia e coraggio, senza paura di concedersi momenti di fragilità o di chiedere aiuto, che può dar vita ad un gioco semplice. Se la squadra, prima, veniva infatti mostrata solo nella sua coralità, in questa terza stagione emerge finalmente per come gli occhi di Ted l’hanno sempre vista, ovvero per la dignità emotiva di ogni singolo individuo. Ed è per questo che, dopo due stagioni di partite (quasi) sempre perse, la serie ha pazientemente atteso la crescita di ciascun personaggio, prima di mettere in scena una credibile abilità calcistica dell’AFC Richmond. Il team, ora unito, vince anche grazie alla fermezza della presidente Rebecca Welton, al supporto del direttore operativo Leslie Higgins (un bravo Jeremy Swift), alle stravaganze del “taciturno” Coach Beard (Brendan Hunt), alla determinazione della responsabile PR Keeley Jones (Juno Temple) e alla presenza di Trent Crimm (James Lance), giornalista sportivo del The Independent che, nella terza stagione, ha deciso di scrivere un libro sul Richmond. Se alcuni sviluppi confermano la rara maestria delle precedenti stagioni, caratterizzate da un sempre progressivo climax, dilatato, delicato e paziente, l’impellenza di chiudere tutti i varchi narrativi, che avevano condotto ad aspettative molto alte, ha invece comportato qualche inevitabile compromesso. Da un lato, ad esempio, lo sviluppo del rapporto dolceamaro tra Jamie Tartt (Phil Dunster) e Roy Kent (Brett Goldstein), viene brillantemente snodato dall’essere nemesi fino a reciproche spalle, mentre è molto attesa ma fin troppo approssimativa la redenzione del magazziniere Nate Shelley (Nick Mohammed), che aveva voltato le spalle alla squadra per allenare il nuovo club dell’ex marito di Rebecca, il West Ham. Un po’ fiabesco e forzato, è anche l’happy ending sentimentale della stessa Rebecca Welton, forse più frettoloso che necessario.

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La raffinatezza dei tempi comici, gli omaggi e la profondità delle sotto trame

I tempi comici della serie, originano una sapiente dilatazione spesso grottesca e surreale della realtà, come per l’episodio Girasoli (3x6), ambientato in una notte di libertà ad Amsterdam, dove ciascun personaggio si perde per vivere storie folli, superare paure e andare incontro ad epifanie liberatorie fino alla mattina successiva, in cui tutti si rincontrano come se nulla fosse, silenti ma cresciuti. Episodio che ricorda molto L'after hours di Beard (2x9) in cui Coach Beard, decidendo di prendere la strada più lunga per tornare a casa, va incontro ad un’incredibile odissea notturna attraverso Londra; il costante e solo apparente atteggiamento nonsense dello stesso Beard, cela in verità un raffinatissimo lavoro di scrittura ed inflessione postmoderna. Inoltre, il repertorio citazionistico di Ted Lasso si riconferma una delle firme distintive della serie, grazie a continui riferimenti alla cultura pop, attuale o passata, e omaggi più o meno espliciti a film o serie televisive. Come quando, in questa terza stagione, una modella vanitosa lascia Nate Shalley per raggiungere le amiche che la attendono in una macchina decappottabile, sulle note di Wake Me Up Before You Go-Go, strizzando l’occhio ai modelli “belli belli in modo assurdo” di Zoolander. La comicità si concede però anche pause essenziali per trattare, mai in modo melenso, temi come immigrazione, maternità, revenge porn e coming out. Ma, soprattutto, la salute mentale.

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Alla fine della terza stagione, Ted deve partire. Come tutti i più grandi “campioni”, dopo essersi confrontato con i dolori del passato e del presente, quali il trauma della morte del padre o la lontananza dal figlio, Ted, capisce che è il momento di farsi da parte, senza rischiare di perdere il senso di quanto fatto finora ma al contrario trovando il coraggio di passare il testimone, esattamente come fa la serie. Lo stesso Ted, quando a chiusura della terza stagione vedrà che il titolo del libro di Trent Crimm è Il metodo Lasso gli chiederà di cambiarlo, perché «Non è una storia su di me, non lo è mai stata». La storia di Ted Lasso, infatti, riguarda la squadra di calcio, che fa da esca per raccontare un toccante mosaico di vite che, ora, può farcela anche senza di lui. Ted Lasso se ne va, ma ci lascia nelle mani un piccolo gioiello della lunga serialità contemporanea, in grado di riuscire nell’impossibile: alternare con successo, dal primo fino all’ultimo degli episodi, le risate con i pianti.