The World to Come, la recensione: un film delicato e avvolgente, come un piccolo Malick

Cinema

Giuseppe Pastore

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Il film di Mona Fastvold si muove nel solco della tradizione e propone altri due personaggi femminili contemporanei, in un "cinema del distacco" mai così attuale

Sei mesi nella vita di Abigail e Tallie: vicine di casa, mogli infelici, amiche e poi amanti impossibili nell'America rurale del 1856.

Tratto da un racconto breve dell'autore Jim Shepard, per questo film la norvegese Mona Fastvold deve aver mandato a memoria in tempi non sospetti l'intero I giorni del cielo (1978), secondo film di Terrence Malick che vinse il Premio per la miglior regia a Cannes. Sembra di sentirle, anche se non ci sono, le note del Carnevale degli Animali di Camille Saint-Saens che scorrevano sui titoli di testa di quel film magnifico, ulteriormente impreziosito da una fotografia straordinaria e da un giovane protagonista ancora sconosciuto, quel Richard Gere la cui carriera prese il volo proprio da quel momento. Anche qui ci sono la campagna, l'incendio, il dolore, la necessità di nascondersi, la sconfitta, la morte: nell'ennesimo bel film femminile di quest'edizione, ci sono due ottime attrici - la mora Katherine Waterston e la rossa Vanessa Kirby, magnetica come una giovane Nicole Kidman, già vista ventiquattr'ore prima in Pieces of a Woman - cui Fastvold impone la sordina di una recitazione trattenuta ma non per questo meno intensa e appassionata (il paragone sarebbe con il Brokeback Mountain che vinse il Leone d'Oro quindici anni orsono: forse eccessivo e non del tutto corretto, ma rende l'idea).

 

Con ogni probabilità non passerà alla storia del cinema The World To Come, prodotto da Casey Affleck che ci mette anche la faccia tormentata di uno dei suoi tipici personaggi inadeguati, anti-eroi di frontiera. Però è oggettivamente difficile trovargli un chiaro difetto: è scritto bene, ha un ritmo monotono ma coerente con l'ambientazione e il contesto (non è che le giornate di una donna di campagna nel 1856 fossero Disneyland), la regia non disdegna di prendersi qualche rischio e risulta la copiatura in bella di tanti modelli di valore, dal già citato Malick alle eroine di Jane Campion. Un altro buon esempio di quel cinema del distacco e della lontananza che trova una collocazione ideale in questi mesi difficili di troppe relazioni a distanza.

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