Holofiction, la Shoah e il cinema: il film di Michal Kosakowski scava una ferita sonora

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Alla Mostra di Venezia 2025 è stato presentato  Holofiction di Michal Kosakowski: un’opera monumentale di found footage che rimonta oltre 3.000 film e serie sulla Shoah. Un viaggio ipnotico e perturbante, senza dialoghi, dove le immagini diventano eco e la musica di Paolo Marzocchi ferita sonora. Il film interroga i limiti della rappresentazione del trauma, citando capolavori come Schindler’s List, La vita è bella e Il pianista, e riflette sul ruolo del cinema nella costruzione della memoria collettiva

Presentato in anteprima alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (DIRETTA), nella sezione Venezia Classici – Documentari sul cinema, Holofiction di Michal Kosakowski si presenta come un film che non racconta la Shoah ma la sua rappresentazione. Non la Storia, ma la storia delle immagini. Non l’orrore, ma il suo riflesso cinematografico, stratificato, riciclato, spesso abusato.

Kosakowski costruisce il suo lavoro con un gesto monumentale: otto anni di ricerca, oltre 3.000 opere audiovisive raccolte e scomposte, rimontate in una partitura ipnotica di frammenti. Ne esce un film muto contemporaneo, dove l’assenza della parola diventa eco di un silenzio impossibile.

Lanzmann e il divieto della rappresentazione

Al cuore di Holofiction pulsa un’ombra: quella di Claude Lanzmann, il regista di Shoah, che rifiutava ogni tentativo di raffigurazione visiva dell’Olocausto. “La finzione è una trasgressione”, dichiarava. Kosakowski prende atto di quel divieto e lo infrange, ma non ingenuamente: il suo film si muove proprio nello spazio del paradosso, interrogando la possibilità stessa di rappresentare l’inenarrabile.

È un cinema-saggio che chiede: cosa accade quando il volto della vittima e quello del carnefice coincidono nello stesso attore, in pellicole diverse? Quale memoria si sedimenta se a costruirla sono cliché, melodrammi, formule narrative?

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Un montaggio di fantasmi

L’esperienza della visione è insieme ipnotica e perturbante. Gli attori – celebri o anonimi – ritornano come spettri, interpretando ruoli che si contraddicono. Un soldato che fucila diventa, in un altro film, l’ebreo deportato. Le immagini, messe in collisione, si annullano e si amplificano, smascherando la finzione e insieme la sua potenza.

Il found footage diventa strumento archeologico: non racconta, ma scava. Ogni inquadratura è reliquia e simulacro, ogni sequenza un’eco che ci interroga più che consolare.

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La musica di Paolo Marzocchi: collante e ferita

Se le immagini sono mute, è la colonna sonora di Paolo Marzocchi a dare respiro e corpo al film. Il compositore pesarese, già autore di opere liriche e sinfoniche, costruisce una partitura che non accompagna ma mette in crisi.

Due i temi cardine: il tango ebraico Ich hab kein Heimatland di Friedrich Schwarz e la ninna nanna Wiegala, composta da Ilse Weber nel campo di Theresienstadt. Due melodie che attraversano il film come spettri sonori, capaci di evocare empatia ma anche di svelare la natura metacinematografica dell’operazione.

L’esecuzione della WunderKammer Orchestra, con la voce di Valentina Coladonato e il coro di voci bianche “Novello InCanto”, amplifica il senso di straniamento: l’innocenza infantile contrasta con l’orrore evocato dalle immagini, trasformando la musica in ferita aperta.

Le immagini che ci hanno formato

Tra i frammenti scelti da Michal Kosakowski scorrono titoli che hanno plasmato l’immaginario collettivo della Shoah. Dal volto di Millie Perkins in Il diario di Anna Frank al pianoforte silenzioso di Adrien Brody ne Il pianista, fino al bianco e nero di Schindler’s List, con quella bambina dal cappotto rosso che è diventata icona universale. Ci sono le lacrime e i sorrisi forzati de La vita è bella, la ferita aperta de Il tamburo di latta, l’inquietudine perturbante de Il portiere di notte. E ancora la serie-evento Holocaust del 1978, che per la prima volta portò nelle case di milioni di spettatori il dramma dello sterminio. Kosakowski li mette uno accanto all’altro, mostrando come il cinema abbia codificato la Shoah in immagini tanto potenti quanto ambigue: archetipi che ci commuovono ma che rischiano anche di diventare cliché, riducendo il trauma a un linguaggio ripetuto.

Dark Tourism e l’arte di ricordare

Holofiction è anche parte di un più ampio progetto decennale, Dark Tourism, in cui Kosakowski esplora il modo in cui le società contemporanee rappresentano e consumano il trauma. Un’indagine che unisce cinema, fotografia e installazioni, e che interroga il confine tra memoria, spettacolo e consumo mediatico.

In un’epoca in cui la generazione dei testimoni diretti sta scomparendo, l’urgenza di ridefinire le forme della memoria si fa impellente. Il film parla soprattutto ai più giovani, cresciuti tra immagini digitali e social network, chiamati a confrontarsi con un passato che rischia di diventare pura estetica senza storia.

L’eredità del cinema sulla Shoah

Dal 1938 a oggi, il cinema ha accumulato una quantità immensa di rappresentazioni della Shoah: drammi storici, melodrammi hollywoodiani, serie televisive, film d’autore, exploitation. Holofiction le riunisce e le mette in collisione, smascherando le ricorrenze iconografiche, i pattern narrativi, i cliché.

L’icona della fila ai cancelli, i binari del treno, il volto scavato, il carnefice in uniforme, la madre che protegge il figlio. Immagini che si ripetono fino a diventare stereotipi, rischiando di perdere la loro forza testimoniale per trasformarsi in puro codice cinematografico.

Kosakowski ci obbliga a guardarle di nuovo, ma con occhi diversi: non come verità, ma come costruzioni. Non come memoria, ma come rappresentazioni della memoria.

il silenzio e l’eco

Alla fine della visione resta un silenzio che pesa. Non un vuoto, ma un’eco. Le immagini viste non ci appartengono eppure ci attraversano, come frammenti di un sogno inquieto.

Holofiction non è un film “sulla” Shoah, ma un film sulla nostra incapacità di rappresentarla senza cadere in cliché, retorica o spettacolo. È un film che ci costringe a dubitare, e proprio per questo diventa un atto di memoria autentica: fragile, instabile, mai definitiva.

Michal Kosakowski firma un’opera che è saggio visivo, requiem muto e riflessione politica. Un film necessario, che ci chiede di guardare il cinema mentre ci guarda, ricordandoci che l’orrore non smette di interrogare, e che la memoria è un lavoro senza fine.

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