Weapons di Zach Cregger, un horror scioccante tra colpa e sparizioni. La recensione

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Un film corale e visionario, sospeso tra tragedia americana e rito collettivo. Diciassette bambini spariscono nella notte, e il paese punta il dito contro una maestra interpretata da una straordinaria Julia Garner. Tra jump scare millimetrici, parassiti come metafore morali, voci infantili, Weapons diventa una fiaba nera sull’orrore del vuoto, sull’espiazione sociale, sulla femminilità sacrificata. Con riferimenti a The Shining, David Lynch e Stephen King, il film si fa liturgia perturbante del nostro tempo

Diciassette bambini spariscono nella notte. Una maestra viene accusata. Weapons, il nuovo film horror di Zach Cregger, è una fiaba nera sul dolore, la colpa e il corpo femminile messo al rogo. Tra Stephen King, il Vangelo, il Luigi Pirandello di 6 Personaggi in cerca d'autore  e il William Friedkin di L'esorcista, il film, al cinema dal 6 agosto con Warner,  racconta il mistero dell’assenza come rito collettivo e costruisce un orrore stratificato che parla del nostro tempo.

Trama di Weapons: bambini spariti e colpe inventate

Il film si apre con uno schermo nero. Una voce infantile, fuori campo, ci avverte: “Questa è una storia vera.” Ma non lo è. È una fiaba nera. E si chiude allo stesso modo, con la medesima voce che rievoca il ciclo dell’orrore. Una cornice perturbante che trasforma il racconto in una leggenda maledetta.

Zach Cregger torna dopo Barbarian con un film che ha il cuore spezzato e lo scheletro deformato. Non a caso l'idea al cineasta  è venuta dopo al morte di un suo amico

Weapons è quindi un’opera polifonica e personale, un horror epico che non ha paura di cambiare pelle ogni venti minuti e di chiedere troppo allo spettatore.

La premessa narrativa è semplice, eppure disturbante: alle 2:17 del mattino, diciassette bambini della stessa classe escono in silenzio dalle loro case. Solo uno resta. Non si sa dove siano andati. Non si sa perché. La città di Maybrook implode, cerca un colpevole, e lo trova nella persona più ovvia: la loro maestra, Justine Gandy (Julia Garner). Ma questa, come avverte lo stesso regista, non è la trama del film. È solo il detonatore.

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Weapons, il secondo trailer ufficiale del film

La camera di Shining e l'ombra di Stephen King

Weapons è la cronaca di una sparizione, sì. Ma è anche – e soprattutto – un viaggio dentro le cicatrici della psiche americana. Una città come tante, una scuola come tante, e poi un evento impossibile da spiegare che manda tutto a rotoli.
Il tempo simbolico – le 2:17 – è un omaggio implicito a The Shining di Stephen King: la famigerata stanza 217. E proprio King è la bussola emotiva di Cregger: piccoli centri urbani, genitori in lutto, comunità che cercano risposte dove ci sono solo incubi. Il numero 17 – da sempre detestato dai Pitagorici perché collocato tra due numeri perfetti (16 e 18, rappresentanti di quadrati perfetti) – si fa cifra maledetta, numero dell’assenza.

 

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Weapons, il nuovo trailer dell’horror di Zach Cregger

La Legione e la strega

Nel Vangelo secondo Marco (5,9), Gesù chiede a un indemoniato: «Come ti chiami?». E lui risponde: «Il mio nome è Legione, perché siamo in molti». Non c’è più un demone, ma una moltitudine. Una coralità invisibile che prende possesso di un corpo solo. In Weapons, quel corpo è la maestra Justine Gandy. La donna che beve – la vediamo acquistare due bottiglie di vodka al supermercato – che forse ha amato, che forse ha fallito. Su di lei si scarica la colpa collettiva del paese. Qualcuno le imbratta l’auto con la scritta “WITCH”. Witch, in inglese, significa strega. È il marchio dell’epurazione. Maybrook parla con voce scomposta. È la Legione. E Justine è il contenitore sacrificale su cui si incide la vergogna pubblica. Come nel Vangelo, l’indemoniata viene isolata. Ma qui il miracolo non arriva. L’Esorcista di Friedkin è l’eco cinematografica di questa dinamica: non serve più Satana. Basta un bicchiere. Basta un corpo femminile fuori controllo.
Justine – come l’eroina martirizzata del romanzo di De Sade – non è una colpevole. È un meccanismo di colpa.

 

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Weapons, il trailer dell'horror di Zach Cregger immerge nell'incubo

Sei personaggi e un’Erinni

Weapons si struttura come una sinfonia spezzata. Ogni 15-20 minuti cambia punto di vista, tono, ritmo. Ci sono sei personaggi che occupano a turno il centro della scena: Justine, la maestra (Julia Garner). Archer, il padre furente (Josh Brolin). Paul, il poliziotto tormentato (Alden Ehrenreich). Il preside (Benedict Wong). Anthony, tossicodipendente (Austin Abrams, straordinario in Euphoria). E l’unico bambino rimasto, Alex. Ognuno ha un frammento. Una voce. Una caduta. Come ha detto Josh Brolin, il film ricorda «le storie spezzate di Iñárritu e Arriaga». Nessuno ha il quadro completo.

E poi si palesa una figura ambigua: la zia. Ma non è una presenza affettiva: è un’Erinni con la parrucca rossa, una donna spettro, clownesca, indecifrabile, come la zia decrepita di "Lil the Dancer" che illumina l''agente Cooper in Fuoco Cammina con me, come la gemella di Mistery Man in Strade Perdute

Julia Garner è Justine, la strega moderna sotto accusa

Justine Gandy non è solo una maestra. È il bersaglio perfetto. Non ha figli. Non ha un uomo. Beve. Ama. Forse ha commesso errori. Tanto basta perché la comunità la elegga a colpevole ideale. Weapons è un processo morale. Un’esecuzione simbolica. Justine incarna l’epurazione del desiderio. L’annullamento della donna autonoma. Non è indemoniata. È semplicemente umana. Ed è per questo che la società desidera sacrificarla

Weapons si muove come una processione. La scuola diventa un altare profanato. Ogni scena è un piccolo rito, ogni inquadratura un’offerta. La regia è ipersoggettiva, scende al livello dei bambini. La fotografia è lattiginosa, irreale. Le musiche pulsano come ferite. Il montaggio frammenta ogni tentativo di coerenza. Non si cerca più una soluzione. Si cerca un colpevole. Si cerca un rituale collettivo per sopravvivere all’inspiegabile.
La lezione di Justine ai ragazzi è dedicata ai parassiti. Il preside guarda in TV un documentario sui parassiti insieme al compagno. Siamo i parassiti di noi stessi, forse. Al tempo stesso freccia e bersaglio, missile e obiettivo. La tocca piano: siamo armi in volo verso l’apocalisse. Ecco perché il film si chiama Weapons.

 

Zuppa Campbell e colpa: la pop art del male

E Cregger, con un tocco quasi pop, riesce a rendere perturbante persino una zuppa Campbell, immortalata da Warhol, che qui diventa icona tragica del consumo e del vuoto. I jump scare e le scene più efferate sono dosati con precisione assoluta, come gocce di angostura in un Manhattan: piccoli traumi ben miscelati, in grado di risvegliare i sensi senza mai ubriacare lo spettatore.

E alla fine, resta solo la voce. La comunità si stringe su se stessa come un nodo. I miracolo non esistono. Weapons non dà risposte, non cerca colpe. Si limita a mostrare il vuoto, e a farlo risuonare. È una fiaba nera detta al buio, un requiem senza salvezza. Ci ricorda che forse non esiste un demone da cacciare, ma una moltitudine senza nome, una Legione che ci abita, ci attraversa, ci parla. Non è dentro di noi. È già ovunque. E ha la nostra voce.

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