Queer, Daniel Craig tra sesso e droga. La recensione del film diLuca Guadagnino
Cinema
Il regista di "Chiamami col tuo nome" firma una lisergica e appassionata trasposizione cinematografica del romanzo semi-autobiografico scritto da William Burroughs. Tra eroina, ayahuasca, metzcal e tequila, un allucinante viaggio al termine della notte. Una visionaria storia d'amore, solitutine e dipendenza ambientata tra il Messico e il Sudamerica degli anni Cinquanta. In sala dal 17 aprile
Basta la prima inquadratura di Queer, il dettaglio di un materasso niente affatto memory, ma memore di notti selvagge, alcoliche e lussuriose, per comprendere quanto Luca Guadagnino abbia divorato e amato i romanzi di William Burroughs. Il nume tutelare della Beat Generation alberga in ogni fotogramma del film presentato in concorso all’ottantunesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e uscito nelle sale cinematografiche da 17 aprile. Durante la visione dell’opera, pare quasi di respirarla “quell’aria pulita e frizzante e il cielo di quella sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi volteggianti, il sangue e la sabbia, quel crudo, minaccioso, spietato azzurro messicano” per citare le parole dello stesso Burroughs. Insomma, il lungometraggio riflette il libro, come il lago il volto di Narciso. Un lungometraggio che non a caso rende omaggio a una sequenza di Orfeo, diretto da Jean Cocteau nel 1950. Perché, in fondo , parimenti ai magici guanti indossati da Jean Marais, il film di Guadagnino ci permette di passare attraverso gli specchi e di perderci nei desideri inconsci di un io diviso
Alcol, droga e amore
Bottiglie di Mescal, provviste del “gusano” di ordinanza” ed epifanie di shot di Tequila bianca. Cocktail Martini con oliva e brandy Napoleon. L’alcol scorre a fiumi in Queer. Le droghe, invece, pure. Qualche botta di cocaina, gocce d’oppio, ma soprattutto eroina di cui William Lee è dipendente, come lo era Burroughs. Ma Il film di Guadagnino non è l’abusato ritratto dell’artista tossicofilo, maledetto ed etilista. Il cineasta riesce a trasfigurare in immagini i momenti buffi, comici, tragici, sorprendenti presenti nelle pagine del libro. Con il suo completo e, probabilmente, in lino, color bianco sporco, il Fedora estivo e gli occhiali, il protagonista è un picaro ebbro e libertino, nella sordida e corrotta Città del Messico degli anni Cinquanta. Un esplosivo mix di Sodoma e Gomorra con cui gli stranieri riescono a sbarcar il lunario con una schidionata di dollari, mentre i bordelli pullulano di clienti e galli e tori combattono sino alla morte. Sarà l’incontro con lo studente Eugene Allerton, a rivoluzionare la vita al quarantenne dissoluto che si innamora perdutamente. Ma il regista italiano sceglie di non narrare la via crucis di una passione non corrisposta, Anzi immagina situazioni non presenti nel testo. A dimostrazioni dell’importanza di replicare pedissequamente un’opera già esistente.

Approfondimento
Queer, intervista a Daniel Craig e Luca Guadagnino. VIDEO

Daniel Craig, da Bond a Burroughs
Sulle note di una colonna sonora indimenticabile (come sempre accade nei film di Guadagnino) si alternano i Nirvana e i Verdena. E Daniel Craig, smesso lo smoking di James Bond, si cala perfettamente nel ruolo, come la zolletta di zucchero si scioglie nel bicchiere di Assenzio. L’attore riesce a rendere credibile il sogno di un uomo di 40 anni convinto attraverso la droga cara agli sciamani di aprire un portale verso altri mondi e invece è costretto a guardarsi allo specchio e quello che vede non gli piace molto. Senza esagerare o calcare troppo la mano, Queer ci ripropone il tragico episodio in cui Burroughs uccise la moglie nel voler imitare Guglielmo Tell, con una pistola invece, Ma invece di colpire bicchiere di cognac posto sulla testa della consorte, le sparo in fronte, E per citare le parole dell’autore del pasto nudo “sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che senza la morte di Joan io non sarei mai diventato uno scrittore, e a rendermi conto di quanto questo evento abbia motivato ed espresso la mia scrittura. Insomma, la pellicola di Guadagnino riesce nella sfida di rappresentare il celebre cut up burroughsiano, di emozionare e coinvolgere gli spettatori disposti a credere che talvolta “life is a killer” e che il linguaggio sia un virus.
