Trilogia di Istanbul, il nuovo progetto di Ferzan Ozpetek è un "ritorno alla sua Itaca"

Cinema

Camilla Sernagiotto

Credits: Netflix

"Istanbul Trilogy" è il nuovo progetto firmato da Ozpetek per Netflix e segna un ritorno alla sua Turchia. Dopo l’ultimo omaggio alla sua terra, risalente al 2017 quando uscì “Rosso Istanbul” (un film girato in Turchia, parlato in lingua turca e con un cast totalmente turco), il celebre regista turco che da anni vive in Italia si approccia nuovamente al suo Paese natale. Si tratta di una trilogia composta da tre cortometraggi intitolati “Meze”, “Musica” e “Muhabbet”



Si intitola Trilogia di Istanbul (Istanbul Trilogy) ed è il nuovo progetto firmato da Ferzan Ozpetek per Netflix. Segna un ritorno del regista turco alla sua terra natale. Dopo l’ultimo omaggio alla sua patria, risalente al 2017 quando uscì Rosso Istanbul (un film girato in Turchia, parlato in lingua turca e con un cast totalmente turco), il celebre cineasta turco che vive da anni in Italia si approccia nuovamente al suo Paese. Trilogia di Istanbul si presenta come una trilogia e si compone di tre cortometraggi, intitolati Meze, Musica e Muhabbet. Meze e Muhabbet durano entrambi 22 minuti, mentre Music dura 16 minuti. Li trovate su Netflix (visibile anche su Sky Glass, Sky Q e tramite la app su Now Smart Stick) nella collezione intitolata Istanbul Trilogy.  



Nel primo corto, Meze, una ragazza decide di sposarsi con un uomo che ha appena conosciuto. Purtroppo per lei, le cose non fileranno lisce come lei aveva previsto. A tirarla su di morale ci penseranno le amorevoli zie e amiche, nonché ciò che dà il titolo a questa prima opera: i mezé, che sono i tipici antipasti turchi. Questa sarà la ricetta vincente per fare recuperare alla protagonista il sorriso, e assieme a quello la voglia di andare avanti. “I meze sono i cicchetti della cucina turca, piatti piccoli freddi e caldi, nati per creare una base nello stomaco e poter berci sopra”, scrive il sito del Gambero Rosso in un articolo uscito in questi giorni dedicato proprio alla cucina nel cinema di Ozpetek, con riferimento a questo nuovo progetto.

Il secondo corto è Musica e racconta la storia dell’incontro di tre bambini che verranno uniti proprio da quella magia messa a titolo, la magia composta dalle sette note.
Poi c’è Muhabbet, cortometraggio che narra l’incontro di un ragazzo con tutte le persone che si è lasciato alle spalle, proponendosi come un viaggio onirico che da Roma porterà il protagonista in una non precisata città della costa turca.

Le speranze disattese fanno da doloroso filo conduttore alla trilogia

Il fil rouge dei tre cortometraggi che compongono la Trilogia di Instanbul sono le speranze disattese. Ciascuno dei film racconta in qualche modo la disillusione cui la vita prima o poi ci pone di fronte, mettendoci faccia a faccia con la crudezza della realtà.
Per esempio nel primo corto, Meze, la giovane protagonista (interpretata da Ahsen Eroglu) decide di sposare un ragazzo che ha appena conosciuto, andando contro il parere della zia (interpretata da Serra Yilmaz). Quando le cose finiranno male, un pranzo di nozze si tramuterà in un pranzo di famiglia, con i deliziosi antipasti preparati dalle mani della zia che danno il titolo all’opera. Ironia, affetto e risate esorcizzano la delusione, che tuttavia rimane a fare da leit motiv dell’episodio. La famosa canzone Aldırma Deli Gönlüm è grande protagonista del corto ed è pure la colonna sonora dei titoli di coda nella versione di Sertab Erener, ribadendo che gli amori si superano ma che lasciano comunque tracce, benché esigue, su chi li ha sperimentati.
In questo episodio il pubblico ritroverà due personaggi cari a Ozpetek: le due “zie zitelle”, simili a quelle che compaiono nell’opera semi-autobiografica Rosso Istanbul.

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La musica come madeleine proustiana

Il secondo episodio della trilogia di Ozpetek si intitola Musica e mette proprio questa al centro. Nel corto le sette note consentono il contatto tra due mondi apparentemente distanti: quello di due bambini di modesta estrazione con quello di un bambino in viaggio per un altro Paese. 

Il contatto, seppure breve, influenzerà per sempre la vita di tutti e tre i protagonisti, come a dire che non esiste incontro o scambio nella vita che non porti a qualche conseguenza. Alla fine del corto non poteva che presentarsi in tutta la sua forza una popolare canzone: Firtina (Tempesta).

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Muhabbet, il terzo corto è il più autobiografico

L’ultima opera di questa trilogia si intitola Muhabbet e sembra essere quello maggiormente autobiografico. Racconta molto della vita di Ozpetek, concentrandosi su quella trascorsa in Italia: ricordiamo che il regista vive nel nostro Paese ormai dal lontano 1976, il che lo rende un turco naturalizzato italiano. Tuttavia la vitale importanza di non dimenticare le origini, le radici e ciò da cui è nato gioca un ruolo fondamentale nel lavoro del cineasta. Da questo episodio emerge una nostalgia e una malinconia tali da emozionare. Del resto proprio queste sono il marchio di chi è emigrato: soltanto chi è lontano dalla propria terra d’origine sa comunicare questo vuoto malinconico e assai poetico.
Si suppone che questo corto si svolga in un sogno del protagonista Selim (interpretato da Kubilay Aka), un giovane che, dopo aver peregrinato per le strade del centro di Roma, si ritroverà in una città della costa turca, seduto a un tavolo con tutte le persone che ha perduto nella sua vita. A quel tavolo esistenziale condividerà vino, raki e chiacchiere profonde sul passato condiviso. E quelle chiacchiere danno il nome a questo corto, Muhabbet (che in turco significa “conversazione”).

In questo corto sembra emergere anche il lutto che il regista ha vissuto di recente, quando pochi anni fa ha perduto sua madre. A sancire il legame di Selim con la morte è anche il corvo tatuato sul suo braccio, che viene frequentemente mostrato nell’inquadratura. 
La natura di Selim - che probabilmente rispecchia quella di Ozpetek, dato che questo personaggio e la sua storia suonano molto autobiografici – è quella di un moderno Ulisse che non sa mettere radici in posti che non siano la sua Itaca. Ma al contempo non sa nemmeno tornare a casa: il suo destino è quello di essere eternamente altrove.

Una ragazza che da sempre è innamorata di lui, di Selim, ad un certo punto dice: “Lui è così: arriva e se ne va, come una tempesta”. Eppure il nostos (che è il ritorno in greco) a Istanbul (che per Ozpetek è la sua Itaca) sarà fondamentale per tornare a casa, dove con casa si intende la casa interiore, quella emotiva, quella del sé.

ROME, ITALY - MARCH 27: Turkish-Italian film director Ferzan Ozpetek attends the "Venetika" photocall at Maxxi Museum, on March 27, 2022 in Rome, Italy. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

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Ozpetek, emigrato da Istanbul a Roma

Ferzan Ozpetek è un emigrato che da Istanbul è venuto a vivere a Roma. “Mi ero trasferito per completare gli studi, iscrivendomi alla Facoltà di Lettere de La Sapienza, e cercare di realizzare il sogno del cinema. Avevo scelto di vivere in un paese perché mi piaceva. Un anno dopo il mio arrivo a Roma, mia madre venne a farmi visita e si meravigliò di quanto mi fossi già integrato. Mi disse: non solo parli come loro, ma ti muovi e mangi da romano”, queste sono le parole del regista espresse nel 2020 in occasione di un’intervista rilasciata a La Repubblica. Nonostante l’integrazione e il sentirsi comunque a casa qui in Italia, il cineasta non ha mai dimenticato la sua prima e vera casa. L’omaggio alla sua Turchia è ciò che l’ha spinto a confezionare questa trilogia esplicitamente dedicata a Istanbul. Ricordiamo inoltre che i tre titoli e le rispettive trame vogliono celebrare tre aspetti cardine della cultura turca: il cibo, la musica e le conversazioni.

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La tavola fa da filo conduttore

Anche la tavola è un dettaglio - oltre a un’idea, a un luogo e proprio a una vera protagonista - che accomuna questi tre corti. La tavola di Ferzan Ozpetek è quella dove si celebra convivialità, condivisione, gioia, memoria, verità, coraggio. In una parola, a tavola si celebra la vita. “È intorno alla tavola che la mia macchina da presa riesce a cogliere l’autentico che alberga nelle persone, le loro rivelazioni, anche sessuali. Capita allora che, di ciak in ciak, si rida, si pianga, ci si scapigli, si solidarizzi, si nasca, si muoia. In una frase: ci si metta a nudo. Con una onestà, una intensità, ma soprattutto una profondità rara”, queste le parole di Ozpetek risalenti al 2022, quando rilascia un'intervista al Corriere della Sera in cui volle puntualizzare quanto la tavola sia importante nel suo cinema così come nella sua vita.
Come fa notare Giulia Bucelli del magazine digitale Movie Mag, in effetti la tavola rappresenta un elemento cardine almeno in altri due film del regista turco: Le fate ignoranti (2001) e Mine vaganti (2010). Nel primo, la protagonista Antonia scoprirà la verità su suo marito seduta attorno a un tavolo con i suoi amici; nel secondo, Tommaso deciderà di fare coming out a tavola durante una cena di famiglia. Non manca nemmeno in opere più recenti, come La dea fortuna (2019). Bucelli aggiunge che non solo la tavola è fondamentale ma anche quello che solitamente vista sopra, ossia il cibo. “Perché il cibo è amore: o ci si abbandona completamente o vi si rinuncia. Se lo si vuol gustare appieno non esiste una via di mezzo. Io dal cibo traggo ispirazione”, aveva spiegato Ozpetek al Corriere.

In effetti in questa nuova opera, Istanbul Trilogy, il cibo è grande protagonista. È sia un elemento consolatorio che un incentivo a mostrarsi per ciò che davvero siamo. È anche un modo per condividere ciò che si prova.
Il cibo che compare nei cortometraggi è quello della tradizione turca, ossia la cucina dell'infanzia del regista. 
Ci sono quindi i mezé, gli antipasti turchi di cui vengono citati per esempio i seguenti: pincur, lakerda, diblé di fagioli, haydari, tarator e kuru cacik, oltre ai tradizionali involtini di foglia di vite (sarma).

 “Centrale è anche il raki, una grappa di origine turca che viene consumata ai pasti e bevuta in generose quantità nella trilogia. Centrale soprattutto nell’ultimo corto, Muhabbet: è il raki a innaffiare le conversazioni cruciali del protagonista con i suoi cari”, si legge su Movie Mag.
“Il rakı è un distillato di uva e anice a 45 gradi che accompagna il cibo, la felicità, la miseria. Una volta era la bevanda nazionale turca; ora ha dovuto (anche se non proprio per decreto!) cedere il posto all’Ayran, bevanda analcolica a base di yogurt” si legge invece sul sito del Gambero Rosso. 


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