"Quando", l'amarcord post-comunista nel nuovo film di Walter Veltroni. La recensione

Cinema
Alessio Accardo

Alessio Accardo

foto di Chiara Calabrò

Dal 30 marzo è in sala Quando, il nuovo film diretto da Walter Veltroni, con Neri Marcoré, Valeria Solarino, Stefano Fresi, Gianmarco Tognazzi e la giovane attrice emergente Dharma Mangia Woods. Tratto dall’omonima opera letteraria dello stesso autore, Quando è prodotto da Lumière & Co. in collaborazione con Sky e Vision distribution.

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“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona” cantava Giorgio Gaber nel 1992 e Walter Veltroni, che comunista in senso stretto non lo è mai stato, sarebbe probabilmente d’accordo con lui, giacché se egli lo divenne, ricoprendo in quel partito e in quelli che ne hanno ereditato la tradizione moltissimi ruoli di rilievo, è stato principalmente grazie al carisma del leader sardo. Questo è lo spirito di cui è innervato il libro Quando, edito da Rizzoli nel 2017, che oggi diventa un film diretto dal suo stesso autore. Nel rimetterci le mani, l’ex Sindaco di Roma si fa aiutare da una delle sceneggiatrici più sensibili del nostro cinema, Doriana Leondeff, nota soprattutto in virtù delle collaborazioni con Silvio Soldini; e da Simone Lenzi, frontman del gruppo indie-rock livornese, “Virginiana Miller”, oltre che scrittore. Per capire di cosa si tratta, sfogliamo il pressbook del film, che alla voce “note di regia” recita così: “Ho cercato di raccontare questa storia, tratta da un mio libro, intrecciando il percorso della comprensione di un mondo caotico e così diverso dal passato, dei mutamenti politici e tecnologici con quello della ricerca di affetti consumati dal tempo. Può essere una fiaba. Forse è un modo per parlare di questo tempo e di noi, oggi.” Una fiaba, dunque, chiave di lettura fondamentale per provare a spiegarsi come è avvenuta la traduzione dalla pagina scritta all’opera cinematografica, oltre che la scelta del ruolo del protagonista, affidato a Neri Marcorè, noto piuttosto per le sue esilaranti imitazioni televisive che per le performance cinematografiche, e che conferisce al personaggio un aspetto lunare, per l’appunto fiabesco. 

L'autobiografia di una generazione                                   

Ma facciamo un passo indietro. Che cos’era e cos’è Quando, il libro? Probabilmente la definizione più azzeccata è quella che ne ha dato Mirella Serri sul quotidiano “La Stampa”: “Una sorta di autobiografia collettiva di una generazione”. Proprio così, attraverso il racconto miracolistico di un ragazzo svenuto nel giorno dei funerali di Berlinguer e risvegliatosi più di trent’anni dopo, Veltroni ha raccontato il “come eravamo” e come siamo diventati, nel passaggio dal ‘900 al terzo millennio. “Amo intrecciare la vita individuale e la grande Storia.” Ha dichiarato: “In Quando l’ho fatto attraverso lo sguardo libero di un uomo che riviene al mondo a 53 anni.” Ciò è tanto più vero se si considera che il vero protagonista del libro è un partito che non c’è più, un’isola separata dal resto del Paese: il Pci, che un intellettuale eretico come Pier Paolo Pasolini (il quale ne fu peraltro radiato per indegnità morale) descrisse così: “Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.” Del rimpianto per quel “Paese” parla Quando, nel segno del tratto stilistico più tipicamente veltroniano, quello “buonista”, depurando cioè il ricordo di quella eccezionale esperienza collettiva dalle sue scorie ideologiche, e conservandone il lato sentimentale. Un “memoir” tra personale e politico in cui, grazie al pretesto narrativo della trentennale condizione letargica del protagonista (già sfruttata in passato da Woody Allen ne Il dormiglione o – per usare un esempio più attuale e attinente - dal film tedesco Good Bye, Lenin!), si viaggia nel tempo per scoprire “quantum mutatus ab illo ...!” La nascita dell’euro, la presenza dei cellulari, il telepass, i social network, da un lato; il crollo del Muro di Berlino, l’attentato delle Torri Gemelle, la fine dell’Urss e, per l’appunto, la morte del Pci, dall’altro. Cosa abbiamo perduto nel frattempo? Sembra chiedersi l’autore, e noi con lui. Ci abbiamo perso o ci abbiamo guadagnato?

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I funerali di Berlinguer   

Il film inizia, anticipando di un paio d’anni l’epoca dei fatti, con una didascalia: Roma 2015. La cinepresa avanza con un carrello avanti dentro il corridoio lercio di un ospedale illuminato dalle luci intermittenti di un neon mezzo scassato. Poco prima, sui titoli di testa avevamo udito la canzone Buon viaggio di Cesare Cremonini, una sorta di manifesto programmatico: “Buon viaggio che sia un’andata o un ritorno, che sia una vita o solo un giorno […] Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare. Che non c’è niente di più vero di un miraggio”. Il direttore dell’ospedale interpretato da Ninni Bruschetta si accorge che Giovanni Piovasco, dopo 31 anni di incoscienza, è sveglio e vigile, non solo: sta cantando “l’Internazionale”! Dopo una dissolvenza incrociata il tempo del film ci riporta al passato remoto della vita del protagonista e della storia del nostro Paese: mentre la cinepresa scopre e descrive una serie di memorabilia degli anni ’70 (Gli Urrà Saiwa, il biliardino, il jukebox, un giradischi), udiamo in sottofondo la vera voce di Valerio Morucci delle Brigate Rosse, che sta dando istruzioni per il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. È il 9 maggio del 1978. Poi ancora un flashback (tecnicamente è un flashforward) e ci troviamo nella Piazza San Giovanni invasa di bandiere rosse vista decine di volte nel secolo scorso, anche al cinema (celeberrima la scena di Dramma della gelosia di Ettore Scola – peraltro grande amico di Veltroni - con uno stralunato Marcello Mastroianni che si interroga sulle proprie pene d’amor perduto, mentre dal palco inizia a concionare il vero Pietro Ingrao). È lì che tutto ebbe inizio, il 13 giugno 1984, durante i funerali di Enrico Berlinguer, il segretario più amato del Pci. Lì dove Giovanni, colpito al capo da uno striscione, perde i sensi per un tempo quasi infinito. (Si dica soltanto en passant che i funerali di un altro mitico segretario di quel partito, Palmiro Togliatti, funsero da pretesto narrativo per l’esordio assoluto dietro alla macchina da presa dei fratelli Taviani, ne I sovversivi, del 1967; ma anche – l’intercalare è perfettamente voluto… – che all’amato Berlinguer, Veltroni deve il proprio esordio cinematografico, nel 2014, grazie al documentario Quando c’era Berlinguer). 

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Il cast del film 

Ci viene incontro Flavia, la ex fidanzata del protagonista, che si chiama guarda caso come la moglie dello scrittore\regista, a dire di quanto gli eventi narrati siano profondamente autobiografici. È interpretata da Carlotta Gamba, già vista in America Latina dei fratelli D’Innocenzo. Da adulta sarà Olivia Corsini, che ora fa la doppiatrice ed è sposata con Gianmarco “Gimbo” Tognazzi, nel ruolo di Tommaso, un tempo il miglior amico di Giovanni. Scopriremo in seguito che i due hanno una figlia, Francesca, che fa la guida turistica ed ha il bel volto di Dharma Mangia Woods. Sono solo alcuni dei nomi di spicco che impreziosiscono il cast del film, alcuni grazie a dei brevissimi camei. C’è Elena di Cioccio nei panni di una vistosissima presentatrice tv. Massimiliano Bruno, un simpatico fisioterapista. Stefano Fresi, un cameriere giulivo, laureato in Filologia romanza ma costretto a sciorinare dei menù incomprensibili per pagarsi il mutuo. Il direttore di La7, nonché storico collaboratore di Diego “Zoro” Bianchi, Andrea Salerno, nei panni di un barista vernacolare. E il Mago Forest (al secolo: Michele Foresta) ovviamente nel ruolo di un mago scalcagnato che si esibisce in una tipica Festa dell’Unità degli anni ’70, quando erano delle gioiose kermesse nazionalpopolari, sorta di riti secolari della chiesa laica d’Italia. Ma il coprotagonista del film è Valeria Solarino, nei panni talari di Suor Giulia, una religiosa progressista che si è dedicata ad accudire il “compagno” addormentato (a proposito, una delle migliori battute del film è questa: “Compagni è una parola che non esiste più. Eppure, era bella, viene dal latino: cum + panis: condividere il pane"), nutrendo un sentimento inqualificabile che poi diverrà forse reciproco. E così, grazie alla sua affettuosa compagnia e a quella di Leo, un ragazzo problematico, affetto da mutismo selettivo, Giovanni inizierà a fare i conti col passato; un passato che viene rievocato davanti ai nostri occhi, un pezzo alla volta, come radunando i tasselli di un mosaico sbiadito: una tessera del Pci con l’effige di Togliatti, una foto di scena di Non ci resta che piangere, una copia dell’indimenticabile numero de “L’Unità” che recitava a caratteri cubitali: “Addio Enrico”.

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La Storia siamo noi

Così, a poco a poco, ci sfila davanti agli occhi la storia contemporanea, non solo italiana: le proteste di Piazza Tienanmen, Nelson Mandela, l’attentato di Capaci, l’orrore del Bataclan, uno dei tanti naufragi di migranti, lo scioglimento dei ghiacciai. Il lancio delle monetine a Bettino Craxi davanti all’Hotel Raphael, quando – se non fosse ancora sufficientemente chiaro - si chiarisce definitivamente che Giovanni è Veltroni: non si era troppo rammaricato quando aveva appreso del crollo dell’Unione sovietica, perché “noi avevamo già strappato”. Adesso, davanti alle immagini della contestazione all’ex leader socialista, fa una smorfia di disappunto (“no, questo no”). La ricerca del tempo perduto del suo protagonista consente inoltre a Veltroni di compiere una mappatura sentimentale dei luoghi/topoi del comunismo italiano: la storica sede di Via delle Botteghe oscure (“il giorno del funerale papà mi ci portò coi compagni della sezione, era pieno di bandiere rosse, piangevano tutti”), la libreria Rinascita (“ci ho comprato i Quaderni dal carcere, tosto ma necessario”), trasformata sintomaticamente in un supermercato. Un mondo trasformato, irriconoscibile dopo appena trent’anni, dove non piove mai e dove per mangiare nei ristoranti si deve necessariamente prenotare. I menu si consultano col QR code, e quando vengono declinati sono talmente astrusi da risultare praticamente incomprensibili. A proposito: la scena di Fresi cameriere malgré soi vale il prezzo del biglietto: “Caffè, ne abbiamo di ogni tipo, anche uno thailandese. Si sente l’aroma dei monsoni!” Il senso dell’operazione lo svela il suo stesso autore mettendo in bocca al suo protagonista questo spiegone declinato in voice over a beneficio della sua “assistente particolare”, difronte a uno dei luoghi simbolo dell’epopea del comunismo all’italiana, una sezione di partito: “Era una comunità di persone che sentiva di avere tutti gli stessi valori. Gli stessi sentimenti. L’ideologia era sbagliata, ma gli ideali no. E le persone erano oneste, giuste, belle. Al funerale di Berlinguer piangevano tutti, forse perché avevano capito che allora tutto sarebbe cambiato. Che quel funerale non era solo a un uomo cui volevamo tutti bene. Ma era la fine di un’avventura umana che la Storia aveva superato.” Insomma, tra nomadismi sentimentali e citazioni doc, affetti speciali e un effetto nostalgia spudorato, il film di Veltroni rilegge la storia contemporanea, con l’ottica di parte di chi ne è stato un protagonista, lanciando contemporaneamente uno sguardo di speranza verso il futuro. Lo fa ostentando un’ideologia più buonista che comunista, un termine di cui il regista\scrittore può a buon diritto rivendicare la paternità, e che Treccani definisce così: “Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari, o nei riguardi di un avversario, spec. da parte di un uomo politico; è termine di recente introduzione ma di larga diffusione nel linguaggio giornalistico, per lo più con riferimento a determinati personaggi della vita politica”.

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