Caravaggio secondo Placido: un artista maledetto nella suburra del ‘600. Recensione

Cinema

di Alessio Accardo

Michele Placido racconta gli ultimi anni di vita di Caravaggio, grazie a un cast internazionale strepitoso: da Riccardo Scamarcio a Micaela Ramazzotti, da Louis Garrel a Isabelle Huppert. Da oggi al cinema

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Si parte con una didascalia in esergo, che spiega quanto segue: “In fuga da Roma dopo essere stato accusato di omicidio, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio arriva a Napoli nel 1609. Protetto dalla famiglia Colonna è in attesa di una grazia papale, che annulli la condanna a morte per decapitazione.” Inizia dalla fine, insomma, questo biopic su uno dei più celebri pittori italiani di tutti i tempi, dal racconto dell’ultimo anno della sua breve e intensa vita, durata appena 39 anni.

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Il senso dell’operazione lo chiarisce, senza tentennamenti, il regista Michele Placido: “Nei suoi dipinti Caravaggio mise in scena i poveri cristi, le prostitute e i derelitti della sua epoca; allo stesso identico modo di quanto capiterà secoli dopo a Pier Paolo Pasolini. Caravaggio era di Milano, Pasolini di Bologna: entrambi scesero a Roma e qui scelsero di frequentare i suoi quartieri più malfamati per raccontare i loro tempi attraverso la sofferenza e la vitalità dei suoi abitanti”

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Al fine di rappresentare la biografia di Caravaggio, il regista salentino introduce nella narrazione un personaggio fittizio, “L’ ombra”, un inquisitore dello Stato Pontificio interpretato dall’attore francese Louis Garrel; tramite la sua inesorabile inchiesta persecutoria ripercorriamo le tappe salienti della vita del protagonista: “L’ombra è un personaggio della chiesa più integralista, che al principio della storia non conosce e non capisce Caravaggio. Via via che la sua inchiesta prende piede, però, egli comincia a essere allo stesso tempo affascinato e scandalizzato dalla vita del pittore: affascinato perché non si può rimanere indifferenti davanti ai suoi quadri, scandalizzato per la sua condotta immorale e violenta. Milos Forman ha fatto la stessa cosa con Amadeus, in cui convivono l’autore della musica più divina di sempre, Mozart, e il suo fantasma infantile”

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Il torto del pittore? L’aver realizzato alcuni dipinti che offenderebbero le rappresentazioni sacre nelle chiese romane, come ad esempio “La Madonna della serpe”, per dipingere la quale Caravaggio ha usato come modella una prostituta, Lena Antonietti, interpretata qui da Micaela Ramazzotti, che per l’occasione prende in prestito il dialetto toscano del marito. Una “povera puttana” che funse da modella per alcune delle più rinomate “madonne” ritratte dal pittore: “Non avevo mai lavorato prima d’ora con Michele ed ero molto attratta da questa sua natura punk poetica. Ed è stato bello, perché qui lui è contemporaneamente regista e attore (interpreta il personaggio del Cardinal del Monte): era fantastico perché, da un lato dirigeva la troupe col megafono in mano, dall’altro recitava tutto glitterato con i costumi del delle'epoca! È un regista sia narrativo che descrittivo, Michele, ha un grande senso della messa in scena. Perciò mi piace.”

Louis Garrel non è il solo nome francese del cast di Placido (del resto il film è una coproduzione Italia-Francia): vi appare anche la più importante attrice transalpina vivente, e probabilmente una delle migliori interpreti contemporanee tout court: Isabelle Huppert, che qui fa Costanza Colonna, sua protettrice e sua amante. È dalla sua bocca che veniamo a conoscere il cuore della cifra stilistica di Caravaggio, il quale desiderava “dipingere il vero, i poveracci, i miserabili. I poveri cristi che popolano la notte”. Diseredati e puttane che egli trovava negli ospizi di mendicità, incontrati battendo la strada durante le notti insonni. Davvero una sorta di antesignano di Pasolini, secondo quanto ci ha spiegato Placido, il quale ce lo mostra intento ad amare indistintamente donne e uomini (anzi, ragazzi), nel bel mezzo di scene orgiastiche e di rituali fallici. E proprio le prostitute della suburra romana diverranno i modelli preferiti per le sue opere pittoriche, effigianti scandalosamente soggetti di natura religiosa. Perché – come ripete il pittore – proprio queste reiette sono le figure più adeguate a rappresentare la santità: “le donne in vendita vivono il dolore dell’esistere nel loro corpo.”

Nel resto del (ricchissimo) cast troviamo anche: Vinicio Marchioni, nel ruolo di Giovanni Baglione, accademico vacuo e spocchioso; Brenno Placido, in quello di un giovane riottoso suo seguace, nonché eterno rivale di baruffe e gazzarre del Merisi. Moni Ovadia è il religioso che soprintende l’accoglienza del ricovero di poveri, e Alessandro Haber un popolano di Verona oltre che modello maschile. E ancora: Lorenzo Lavia nella parte di Orazio Gentileschi e Gianfranco Gallo in quella di Giordano Bruno, il frate-filosofo eretico che proprio in quegli anni veniva arso vivo in Campo de’ Fiori. Quindi, infine, Lolita Chammah figlia della Huppert, che iniziò a recitare con la mamma in uno degli ultimi capolavori di Claude Chabrol, e che qui recita in romanesco il ruolo di un’altra cortigiana, che fungerà da modello di una delle pitture più note e scabrose di Caravaggio: “La morte della vergine”. Una delle tante pietre dello scandalo della carriera di Caravaggio, che lo condurrà alla perdizione e all’anatema, quindi alla morte prematura.

Ma L’ombra di Caravaggio è soprattutto l’esame di Laurea di Riccardo Scamarcio, che entra nei panni di Michelangelo Merisi con applicazione mimetica impressionante, anche grazie a una somiglianza somatica davvero incredibile. Al di là di queste affinità più superficiali, tuttavia, l’attore pugliese riesce a restituire sul grande schermo anche il tormento esistenziale di Caravaggio, la sua fame di vita e la sua feroce indipendenza di giudizio. Fino a certi virtuosismi inattesi, che rimandano alle prove più maiuscole di certi suoi colleghi americani come Leonardo DiCaprio. Nella scena del suo imprigionamento nelle segrete maltesi, ad esempio, la mente fatica a non riandare ad opere quali The Aviator o Revenant – Redivivo. E chissà se in questa performance da incorniciare non ci sia entrato anche il magistero del suo corregionale, Placido, che già nel lontano 2009 lo volle nei suoi medesimi panni nel suo film più autobiografico, Il grande sogno.

Della troupe va almeno menzionato il dop Michele D'Attanasio, già direttore della fotografia di Gabriele Mainetti, Matteo Rovere, Mario Martone e dell’ultimo Moretti; che qui si supera mettendosi sulle tracce dei chiaroscuri pittorici del soggetto biografato. Superlativi anche i costumi di Carlo Poggioli e le scenografie di Tonino Zera. Occhio alle location, che, grazie a portentosi effetti speciali, proiettano luoghi magici come Castel Sant’Angelo e Castel dell’Ovo sui fondali del XVI secolo.

Il finale del film, che naturalmente non riveliamo, getta una luce prospettica sulle vicende narrate che giunge fino all’oggi, trasformando il caso Merisi in un affare di Stato, nel quale ieri come oggi a decidere le sorti dei pesciolini da frittura della Storia sono gli interessi superiori (nella fattispecie il potere spirituale e temporale della Chiesa, che era stato messo in questione dalle rivoluzioni riformiste), interpretati e difesi da eminenze grigie che già allora tramavano nell’ombra. La fredda e cieca forza della ragione di Stato, in nome del bisogno d’ordine e dell’istinto di sopravvivenza, è costretta a sopprimere qualunque deriva verso il caos, anche se esso si manifesta, come in questo caso, sotto forma di arte purissima. E l’eco della vicenda di Pasolini, di cui diceva il regista del film, torna ad essere drammaticamente presente.

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