L’orto americano, la recensione del film horror di Pupi Avati in prima tv su Sky e NOW
RecensioniDomenica 27 luglio alle 21:15 arriva in prima tv su Sky Cinema Uno L’orto americano, l’ultimo film horror di Pupi Avati. Disponibile anche in streaming su NOW e on demand in 4K, il film unisce gotico padano, lirici greci e orrore psicologico. Protagonista Filippo Scotti, in una storia d’amore, fantasmi e orti infestati. Una soglia tra due mondi, che Avati attraversa con sguardo dolente e visionario
L’orto americano: la recensione del film horror di Pupi Avati ora su Sky Cinema e in streaming su NOW
L’orto americano non è un orto, ma una soglia. Un confine tra la vita e ciò che la vita – ostinatamente – continua a trattenere.
Domenica 27 luglio alle 21:15 arriva su Sky Cinema Uno, in streaming su NOW e on demand (anche in 4K), l’ultimo lavoro di Pupi Avati, un ritorno alle radici gotiche del suo cinema, ma anche un viaggio profondamente autobiografico.
Un film che nasce dai morti, per parlare ai vivi
C’è una frase che torna nei racconti di Avati: “La vita dopo i cinquanta anni è tutta un tentativo di parlare con i morti”.
L’orto americano è questo: un sussurro rivolto all’aldilà, un’invocazione tenera e spettrale, un’indagine sul mistero della perdita.
Il protagonista, Filippo Scotti, è un giovane scrittore alla ricerca della donna che ha amato: la trova solo in una casa oltre un orto, tra nebbie del Midwest e inquietudini padane. O forse, trova solo un ricordo.
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Il titolo stesso è un ossimoro: orto richiama la terra, l’origine, la casa. Americano evoca la distanza, l'altrove, l’illusione.
La narrazione si sviluppa come un sogno invernale, tra lettere dimenticate e cimiteri senza fine.
I dialoghi sono spezzati, come pensieri interrotti da un lutto non elaborato. E nel mezzo, i versi dei lirici greci, che il protagonista studia come fossero codici per interpretare la realtà.
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Filippo Scotti, la voce giovane di un incubo adulto
Già volto amato di È stata la mano di Dio, Filippo Scotti offre qui un’interpretazione intensa, contenuta, dolorosamente curiosa.
Attorno a lui, Chiara Caselli, Ed Quinn, Roberto Francesco e Marilù Prati compongono una galleria di figure immobili, quasi mummificate dal tempo e dalla colpa.
Avati li dirige come fossero anime perdute. Il ritmo è lento, la tensione è ipnotica. Ogni movimento ha il peso del non detto. Ogni silenzio contiene un grido trattenuto.
Una regia che torna all’origine
Il film è stato girato in bianco e nero, in un rapporto 1:33, con macchine da presa Arri Alexa Mini: un formato che restituisce il sapore del cinema classico e chiude lo sguardo dello spettatore in una gabbia visiva.
L’effetto è straniante e poetico, come se fossimo intrappolati nei sogni del regista.
La fotografia di Cesare Bastelli avvolge tutto in un chiaroscuro quasi tombale. Le musiche originali, firmate da Riz Ortolani, aggiungono un tocco di struggente liturgia.
L’horror secondo Avati
Questo non è un horror urlato, ma un thriller della memoria, una discesa nel pozzo profondo delle emozioni irrisolte.
C’è dentro la malinconia di Zeder, l’eleganza de La casa dalle finestre che ridono, la vertigine di chi ha passato una vita a filmare ciò che ci spaventa perché ci somiglia.
Conclusione: un film da guardare in silenzio
L’orto americano è una confessione sussurrata al buio, una lettera che arriva in ritardo, un film che non cerca risposte ma chiede di restare in ascolto.
Avati ha 86 anni. Eppure, come i suoi protagonisti, non smette di cercare. Cerca nel passato, negli sguardi, nelle parole che non abbiamo avuto il coraggio di dire.