I 30 anni di Mediterraneo: dedicato a tutti quelli che stanno scappando

Cinema

Giuseppe Pastore

Il 31 gennaio 1991 usciva la pellicola "da Oscar" di Gabriele Salvatores, premiato un anno dopo con la statuetta di miglior film straniero: un'opera attuale e amatissima ancora oggi, tra la poetica del disimpegno e il peso di diventare adulti

La notte del 30 marzo 1992 una notizia a sorpresa sconvolse in meglio l'Italia: Mediterraneo di Gabriele Salvatores aveva vinto l'Oscar come miglior film straniero spuntandola sul favoritissimo (e bellissimo) Lanterne Rosse di Zhang Yimou. Mancavano poche ore al 1° aprile, ma non era uno scherzo: anzi, col senno di poi, qualcuno avrebbe dovuto annusare la sorpresa già all'ingresso in scena con la busta in mano di Sylvester Stallone, le cui origini non erano certo asiatiche. Mentre negli studi di Canale 5 (che all'epoca trasmetteva la diretta degli Oscar) partiva la festa della gran parte degli attori che erano rimasti a Milano, Salvatores, congratulato dai produttori Vittorio Cecchi Gori e Gianni Minervini, saliva sul palco con un'abbronzatura impeccabile (stava girando in Messico Puerto Escondido) e non rinunciava – nonostante un inglese non fluentissimo – a lanciare un messaggio politico: “Fate come i personaggi del film e smettete di fare la guerra: la vita è molto meglio”.

Mediterraneo era uscito nei cinema italiani oltre un anno prima, il 31 gennaio 1991, in piena Guerra del Golfo, mentre i tg italiani erano occupati dal volto di Maurizio Cocciolone, il navigatore dell'Aeronautica abbattuto e catturato dalle milizie irachene insieme al pilota Gianmarco Bellini (sarebbero stati liberati a marzo). Questo film fieramente e delicatamente anti-militarista rappresentava l'anello centrale della “tetralogia della fuga”, inaugurata nel 1988 con Marrakech Express, proseguita nel 1990 con Turné e conclusa nel 1992 con Puerto Escondido, pellicole interpretate da tutti gli attori-feticcio di Salvatores, da Claudio Bisio a Giuseppe Cederna passando per Gigio Alberti, anche se l'unico presente in tutti e quattro i film è Diego Abatantuono, debordante mattatore. Il suo sergente Nicola Lorusso, cialtrone e opportunista ma con un fondo di dignità, è l'archetipo dei grandi ruoli “militari” del cinema italiano, dai Busacca e Jacovacci (alias Vittorio Gassman e Alberto Sordi) de La Grande Guerra in giù; e forse anche per questo Mediterraneo suonò subito familiare sia al nostro pubblico sia ai giurati dell'Academy, che premiarono una versione leggermente diversa da quella italiana, in cui prima del finale era stato inserito un flashback conclusivo che riportava Abatantuono, Bigagli e Cederna agli anni della gioventù.

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Liberamente tratto dal romanzo autobiografico Sagapò (“ti amo” in greco) di Renzo Biasion, girato nell'isola greca di Kastellorizo (Castelrosso in italiano), a est di Rodi, Mediterraneo riprende tutti i temi tipici della poetica di Salvatores, a cominciare dall'amicizia virile che si sviluppa nella complicità di battute da caserma, partite di pallone sulla spiaggia, lunghe fumate collettive ma anche scelte forti, tutt'altro che accomodanti. Aperto da una citazione del biologo francese Henry Laborit (“In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”), chiuso da una dedica che anche a distanza di trent'anni non manca di suscitare un brivido di commozione (“a tutti quelli che stanno scappando”), Mediterraneo fu subito amatissimo dalla generazione di quei trentenni-quarantenni un po' sperduti in un'epoca di progressivo crollo di certezze politiche, economiche, sociali e sentimentali, definiti con precisione dalla voce fuori campo di Claudio Bigagli nell'incipit del film: “quell'età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo”.

VENICE, ITALY - SEPTEMBER 06: Italian director Gabriele Salvatores walks the red carpet ahead of the "Tutto il mio folle amore" screening during the 76th Venice Film Festival at Sala Grande on September 06, 2019 in Venice, Italy. (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

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Ma Mediterraneo è soprattutto un film di attori-amici, catturati dalla cinepresa di Salvatores in momenti talmente spontanei da sembrare naturali nonostante la sceneggiatura di Enzo Monteleone (e non c'è dubbio che Abatantuono, maestro della battuta folgorante, schiacci a fondo il pedale dell'improvvisazione). Ci riferiamo per esempio al “Può interessare?” rivolto dalla prostituta Vassilissa al sergente Lorusso, oppure alla scena del calcio di rigore tra Cederna e Abatantuono, che non si accorge dell'arrivo dell'aereo pilotato da Antonio Catania che annuncia il futuro. Ma furono e restano molto pregevoli le parti minori di Claudio Bisio nel ruolo del disertore Corrado Noventa (che pochi mesi dopo ottenne il suo maggior successo musicale con Rapput, liberamente ispirato al successo del film), di Gigio Alberti più a suo agio con gli asini che con gli esseri umani, di Ugo Conti come sempre fidato accompagnatore di Abatantuono e anche della bella Vana Barba, Miss Grecia 1984, assurta a celebrità grazie al personaggio di Vassilissa e poi tornata velocemente nel dimenticatoio (almeno in Italia).  

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La suggestiva colonna sonora di Giancarlo Bigazzi, fondatore degli Squallor ma anche autore di alcuni tra i più grandi successi della musica leggera italiana (Ti amo, Rose Rosse, Montagne Verdi, Gloria, Si può dare di più, Non si può morire dentro e altre decine), è la cornice perfetta per un viaggio nel passato che si concede volutamente alcune licenze poetiche per occhieggiare al pubblico dei primi anni Novanta (a un certo punto Abatantuono cita la famosa frase di Mao “C'è grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente” che risale invece alla Rivoluzione Culturale cinese degli anni Sessanta). Salvatores aveva 42 anni, era al suo terzo film importante e aveva già raggiunto quel traguardo che tanti suoi colleghi inseguono invano per una vita intera: “Se vai in un posto improbabile che si chiama Saint Louis de Potosi”, dirà anni dopo al Corriere della Sera, “vedrai nei bar almeno cento foto con i campesinos che festeggiano con in mano il mio Oscar”. A rimanerci male fu soprattutto Zhang Yimou, il cui Lanterne Rosse era stato proibito in Cina e gareggiava sotto le insegne di Hong Kong: sognava l'Oscar per essere finalmente sdoganato dal potere politico cinese. “Lo incrociai nei bagni, io uscivo e lui entrava furibondo, e mi disse una cosa in cinese che fortunatamente non capii”. Ma il ricordo più bello fu il premio aggiuntivo che gli riservò l'Academy: la possibilità di pranzare con un membro della giuria a scelta. E Salvatores, uomo di commedie, di risate e di rapporti umani, scelse il suo preferito: Billy Wilder.

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