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In bilico tra zucchero e insulina, aspettando una cura: convivere con il diabete di tipo 1

Salute e Benessere

Giulia Mengolini

©Getty

È una patologia cronica di origine autoimmune, che costringe a una vita scandita da controlli costanti, misurazioni di glicemia e iniezioni di insulina. Non si può prevenire con una corretta alimentazione, e colpisce anche i piccolissimi. In occasione della Giornata Mondiale, il racconto di chi ha reimparato a vivere "nonostante"

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Il diabete è una delle patologie più diffuse al mondo: colpisce 250 milioni di persone (in Italia 3,5) e l’incidenza è in forte crescita: si stima che tra 16 anni ne saranno affette circa 400 milioni. Esistono diverse forme di diabete: il più diffuso è quello di tipo 2, quello cosiddetto “alimentare”, mentre quello di tipo 1, meno conosciuto e di origine autoimmune, è per definizione “insulinodipendente”.
La diagnosi di diabete di tipo 1 stravolge la vita di chi la riceve. C’è un prima e un dopo. La quotidianità diventa scandita da misurazioni della glicemia, iniezioni di insulina, calcoli matematici, attese prima di mangiare e allarmi dei sensori in caso di ipoglicemie e iperglicemie. Il pancreas distrugge le cellule beta che producono insulina, che va quindi somministrata dall’esterno. In Italia ne sono affette circa 186,700 persone, bambini e adulti, che ogni giorno affrontano gli alti e bassi di questa patologia cronica di origine autoimmune. Ad oggi la causa del diabete di tipo 1 è ancora sconosciuta.

Una Fondazione per sostenere la ricerca

Francesca Ulivi, paziente e giornalista, dirige la Fondazione Italiana Diabete. “Il diabete di tipo 1 mi è venuto a 40 anni. La diagnosi può arrivare sia da bambini che da adulti”, spiega. “Otto anni dopo l’esordio ho deciso di lasciare il lavoro per dedicarmi a raccogliere fondi per la ricerca e fare informazione: il diabete di tipo 1 è molto spesso confuso con quello di tipo 2 e in pochi sanno quanto sia difficile vivere una vita felice, nonostante questa patologia”. Ulivi dirige l’unica fondazione in Italia che finanzia specificamente la ricerca di una cura definitiva per il diabete di tipo, perché l’insulina è appunto una terapia, non una cura. “Abbiamo un comitato scientifico internazionale che valuta le proposte che ci vengono inviate dai ricercatori e le migliori vengono finanziate. Oggi, nella Giornata mondiale del Diabete, siamo alla Camera dei Deputati per parlare di prevenzione di diabete di tipo 1, di screening e di trapianto di isole pancreatiche attraverso le cellule staminali”.

Dai sintomi alla scuola, avere il diabete a sette anni: la storia di Vittoria

Il 4 aprile 2020 è il giorno della diagnosi di Vittoria, sette anni. “Essendo le mie figlie identiche ho notato subito quando hanno iniziato a essere diverse", racconta la mamma, Francesca Guatteri. "Vittoria aveva ricominciato a fare la pipì a letto, dimagriva tantissimo e beveva litri di acqua al giorno: una sete così forte che una notte l’ho trovata mentre beveva dal bidet. In quel momento mi sono davvero allarmata”. La mattina del 4 aprile 2020 era un sabato, a Milano era pieno lockdown, non si poteva andare in ospedale. “Per colazione mi chiese un toast, dei pancake, un pane e marmellata… non l’avevo mai vista così affamata. Convinsi mio marito a portare la bambina in farmacia per misurarle la glicemia, era il periodo delle file chilometriche fuori e dei guanti di gomma”. Il valore era altissimo: 700 mg/dl: Vittoria stava rischiando il coma.
Francesca e Vittoria vanno in ospedale dove resteranno per dieci giorni, senza poter uscire dalla loro stanza. “Non avevo capito che mia figlia avesse rischiato la vita finché dopo averle fatto due flebo di insulina mi dissero che era fuori pericolo”. Il medico le disse: “Sua figlia ha il diabete di tipo 1, significa che non guarirà mai”. Oltre allo choc da genitore, bisognava spiegare a una bambina la dimensione della cronicità. “Dovevo far capire a mia figlia che sarebbe stato per tutta la vita. Lei è stata incredibile, mi ha detto: ‘Va bene mamma, l’importante è che possa continuare a mangiare e a viaggiare’”.

 

Tornata a casa dall’ospedale Vittoria ha insistito per farsi le iniezioni di insulina da sola, e dimostra ogni giorno una grinta incredibile. Dal giorno delle dimissioni però “la vita della nostra famiglia è stata stravolta”, dice Francesca: sono cambiate le giornate e le notti, spesso “disturbate” dal sensore glicemico che avvisa in caso di ipoglicemie e iperglicemie: un aiuto prezioso quello della tecnologia, che può diventare stressante. “Abbiamo imparato a conviverci, anche se è faticoso. Ogni tanto penso alle mamme del 1920, quando ancora non esisteva l’insulina, e soffro”. D’altra parte però “l’insulina è una terapia: la tiene in vita, non la cura. E la difficoltà maggiore è cercare di dosarla nel modo giusto per non rischiare ipoglicemie o iperglicemie gravi, quelle che a lungo andare possono portare alle complicanze”.
Spesso per i genitori di bambini diabetici la scuola è un tema complesso. I più piccoli non sono autonomi nella gestione della terapia e hanno bisogno dell’aiuto dei genitori all’intervallo e per il pranzo. L’esperienza di Vittoria in classe (frequenta una scuola privata) è assolutamente positiva: “Siamo stati fortunati”, racconta la madre. “Dopo l’esordio la maestra è stata fantastica. Tornata a scuola le ha fatto tenere una lezione. Vittoria non ha mai subito episodi di discriminazione: anzi, è felice di spiegare agli altri bambini”. All’intervallo fa l’insulina da sola, mentre “a pranzo mi chiama con l’infermiera, mi comunicano cosa è previsto per il pranzo, il valore della glicemia e noi le diciamo quanta insulina fare. I suoi compagni la aiutano”. E lei è felice di mostrare il suo sensore e spiegare come funziona. “E’ una bambina serena, nonostante”.

diabete-pixabay

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Il diabete di tipo 1 da “adulti” tra zucchero e numeri: la storia di Martina Failla

Martina Failla, 29 anni, lavora a Milano come content creator. La diagnosi di diabete di tipo 1 ha fatto irruzione nella sua vita quando ne aveva 22. “Una sera ero a una festa e non mi sentivo bene. Avevo la vista offuscata, in più da tempo mi sentivo sempre stanca e bevevo litri di acqua al giorno”, racconta. Martina aveva un’amica diabetica che in quell’occasione, insospettita dai suoi sintomi, le propone di misurare la glicemia: “Il risultato fu uno choc: segnava 500 mg/dl (il limite per una diagnosi di diabete di tipo 1 è 126 mg/dl a digiuno, ndr). Ma io non avevo idea di cosa significasse quel numero. La mia amica non disse nulla, a parte ‘Vai in ospedale’”. Quel valore parlò chiaro da subito: era diabete di tipo 1. “La paura è stata quella di non poter continuare la mia vita di prima. Così, per esorcizzare la diagnosi, una settimana dopo sono andata a fare un viaggio da sola a Parigi: ricordo le prime bustine di zucchero prese in metropolitana”.
Questa patologia cronica comporta uno stress quotidiano e senza soste: “Ti obbliga al controllo costante. Devi stimare quanti carboidrati mangerai, capire quale dose di insulina ti serve, misurare la glicemia, programmare le tue azioni in base al valore di partenza”, spiega Martina. “Vivo con l’aiuto di un sensore di monitoraggio del glucosio e un microinfusore con una cannula sempre attaccato al corpo, che mi fornisce insulina 24 ore al giorno”. Ma non è semplice perché il cervello deve abituarsi a comportarsi come farebbe un pancreas funzionante: “Sono io a dargli i comandi, la mente non stacca mai”.

 

Il più radicato mito da sfatare è che non ha a che fare con i dolci: “Li possiamo mangiare, ovviamente grazie all’insulina come per ogni pasto. Ma non sono stati quelli a causare la malattia”. Un altro è che i diabetici non possano assumere zucchero: se in ipoglicemia, è invece proprio quello a salvarli. E devono essere sempre in borsa. Nel 2017 Martina restò fuori da un locale di Milano perché il buttafuori la obbligò a buttare il succo di frutta che aveva con sé.

Secondo Martina, invisibile è l’impatto psicologico della malattia: “Qualsiasi azione va prevista e valutata in base all’andamento della glicemia. Anche una semplice passeggiata. Solo chi vive questa patologia sa quale stress comporti, giorno e notte. Non ci sono giorni di pausa”. La cronicità è un altro aspetto difficile da accettare: “Sapere che questa condizione durerà per tutta la vita non è semplice, anche se ormai il diabete fa parte di me”, spiega. “Mi auguro che la medicina possa trovare una cura. Anche perché sono sempre stata un disastro in matematica, non meritavo di dover imparare a fare i calcoli a più di 20 anni!”.

PAZIENTE SIGNORA CON UNA DOTTORESSA DI UNO STUDIO MEDICO, MEDICO DI BASE, VISITA MEDICA IN AMBULATORIO (RIMINI - 2007-10-24, Campani) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

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Dalla ribellione alla rivincita nello sport, la storia di Luca Vanni

"Luca Vanni, 45 anni, è uno sportivo e diabetico di tipo 1 dal 1989, quando la tecnologia a disposizione oggi era ancora lontana: “Avevo 12 anni e non esistevano le penne di insulina, c'erano le le siringhe. Gli aghi erano grossi e ricordo il dolore e i lividi che mi lasciavano su braccia e gambe. Mi vergognavo a farle davanti agli altri, ricordo che mi chiudevo in camera”, racconta. A scuola, in quegli anni, non era semplice: “I ragazzi mi prendevano in giro, mi davano del drogato”. E anche fuori dalla classe non è stato facile: come quando un ristoratore voleva cacciarlo dal locale perché credeva che si stesse drogando, o quando una pattuglia della polizia lo ha fermato e ha pensato lo stesso trovando delle siringhe in auto.
Le persone con diabete spesso attraversano una fase di ribellione nella fase dell’adolescenza, quella che per definizione ricerca libertà ed evasione, e non va d’accordo con il controllo totale delle proprie azioni. Luca racconta di un periodo di rifiuto della malattia durante quegli anni: “Non rispettavo le regole, facevo il contrario di quello che mi veniva detto. Spesso mangiavo e bevevo quello che volevo senza l’insulina necessaria e raramente controllavo la glicemia”. Il motivo profondo era che “non mi spiegavo perché fosse successo a me”.
Più tardi, a 28 anni, il primo campanello d’allarme di una gestione non ottimale della malattia: il principio di una delle molte possibili complicanze che il diabete di tipo 1 può portare: la retinopatia. E molte ipoglicemie gravi, una in particolare: “Mi trovavo a casa da solo e mi sono trovato sdraiato sul corridoio, semicosciente. Mi sono svegliato dando una testata sulla porta”. Dopo quel momento la paura delle conseguenze di una gestione scorretta inizia a farsi sentire e Luca inizia a prendere maggiore consapevolezza della malattia. “La tecnologia è stata fondamentale: indosso un sensore e un microinfusore di cui non farei mai a meno”.


La vita con il diabete di Luca è divisa in due: la seconda parte è iniziata con la passione per lo sport praticato ad alti livelli – e lo sport per una persona con diabete di tipo 1 è una grande sfida – oltre all’attivismo e all’associazionismo per sensibilizzare sulla malattia, e il suo nuovo lavoro: sales specilist per una ditta che distributrisce sensori e microinfusori con tecnologia avanzata: “Oggi accompagno i pazienti, tra cui molti bambini e bambine, nel loro primo approccio”. Lo sport gli ha dato un’opportunità: ha partecipato a maratone, praticato triathlon e ironman. “Lo sport aiuta le persone con diabete, migliora i livelli di glicemia, ma non è semplice capire come gestirlo: al mio fianco ho sempre avuto uno staff composto da un diabetologo, un allenatore e un nutrizionista”. Le difficoltà peggiori sono le ipoglicemie durante le prestazioni, o riuscire ad allenarsi dopo una notte con la glicemia bassa. Lo sport è un alleato, “ma bisogna studiare il proprio corpo con l’aiuto di esperti e tecnologie”. Luca non ringrazierà mai il diabete di tipo 1, “anche se senza il diabete non sarei diventato quello che sono oggi. Mi ha dato una spinta a migliorare”. Attorno a questa patologia però ruota ancora troppa disinformazione: “Non c’entrano niente i dolci o la cattiva alimentazione, non è una colpa: per questo credo molto nell’importanza di fare divulgazione, perché nessun bambino si senta discriminato”.

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