Dal ciclo alle malattie autommuni: il fem tech in Italia è un mercato da 100 milioni

“Per anni la salute delle donne non è mai stata una priorità”, denuncia Valeria Leuti, fondatrice e presidente di Tech4Fem, nella presentazione del primo report italiano sul settore della “female technology”, un settore che racchiude tutte le tecnologie e le innovazioni applicate alla salute e al benessere delle donne. “Non sono una priorità per la ricerca, per gli investimenti o per le politiche pubbliche”, continua e i dati lo dimostrano: anche se le donne vivono il 6% in più degli uomini, trascorrono il 25% in più della loro vita in cattiva salute, affrontando quasi un decennio con limitazioni fisiche o malattie croniche. Un paradosso che costa all’economia globale oltre mille miliardi di dollari l’anno. E alla fine “a occuparsi della salute delle donne sono soprattutto le donne stesse, con quasi l’80% delle startup da noi mappate che sono fondate o co-fondate da donne”, aggiunge ancora Leuti analizzando i dati dell’Osservatorio Tech4Fem, che ha monitorato oltre 90 realtà attive nel settore delle tecnologie e innovazioni per la salute femminile. Il termine “fem tech” è stato coniato da Ida Tin, fondatrice dell’app Clue, ma non riguarda solo le app per il ciclo mestruale. Comprende un universo più ampio che tocca condizioni specifiche femminili come gravidanza, menopausa e ciclo, patologie che colpiscono le donne in modo diverso rispetto agli uomini, come malattie cardiovascolari o Alzheimer, tumore al seno e alle ovaie, e che incidono in misura sproporzionata, come quelle autoimmuni o la depressione, fino a soluzioni più trasversali per il benessere generale e la sicurezza contro la violenza di genere. L’obiettivo è superare un divario di genere radicato in una medicina che ha per lungo tempo adottato esclusivamente un modello maschile: basti pensare che il 78% delle persone con patologie autoimmuni sono donne, ma solo il 7% del budget di ricerca sull’artrite reumatoide è mirato a loro, e le donne hanno il 50% in più di mortalità a 1 anno da un attacco cardiaco rispetto agli uomini, ma solo il 4,5% del budget di ricerca sulle malattie cardiovascolari viene destinato a ricerche che tengano conto del genere, secondo i dati della ricerca “Closing the women’s health gap 2024” del McKinsey Health Institute e del World Economic Forum. L’Alzheimer poi colpisce le donne nel 66% dei casi, ma gli studi clinici di genere non superano il 30% del totale. Altri dati che mettono in luce il problema: le condizioni e le patologie che incidono profondamente sulla qualità della vita femminile rappresentano il 14% del carico di malattia femminile, ma hanno ricevuto meno dell'1% dei finanziamenti globali alla ricerca tra il 2019 e il 2023. E solo il 22% dei partecipanti alle sperimentazioni cliniche di fase 1 sono donne, e nel 64% dei casi gli interventi medici risultano meno efficaci o meno accessibili per le donne. È nel tentativo di colmare questi gap che il settore del fem tech si sta espandendo, ma finora l’Italia è sempre rimasta indietro: fino a oggi il nostro Paese non compariva in nessun report globale. I primi numeri ufficiali sono invece disponibili nel Report 2025 dell’Osservatorio FemTech di Tech4Fem, realizzato con il Minerva Lab di Sapienza Università di Roma. Sono state mappate 92 realtà tra startup, PMI e società benefit, delle quali l’80% ha almeno una donna tra i founder, contro il 19% della media nazionale, in un contesto in cui solo il 2-3% degli investimenti di venture capital globale si dirige verso startup fondate da donne. Molte imprese dunque operano autofinanziate, producendo fatturato senza entrare nei radar degli investitori tradizionali. La maggior parte si concentra al nord, in particolare in Lombardia e Lazio, e il fatturato complessivo stimato varia tra i 41 e i 100 milioni di euro. I segmenti più attivi sono quelli legati alla salute mestruale e ormonale e all’oncologia, ma non mancano peculiarità italiane: lavoro di cura e contrasto alla violenza di genere rappresentano quasi un quinto del totale. Secondo i dati del report, più di un terzo delle realtà non ha mai fatto fundraising e oltre la metà si sostiene soprattutto con investimenti personali; solo una minoranza riceve capitali di venture. A ciò si aggiungono barriere comunicative, dove il 92% delle imprese segnala difficoltà a promuoversi online a causa di censure e bias legati ai contenuti sulla salute femminile e pregiudizi sistemici: l’85% dichiara ostacoli nei rapporti con banche, investitori e partner. E se in Italia la stima complessiva del fatturato delle realtà mappate per il 2024 si situa in un intervallo compreso tra circa 41 e 100 milioni di euro, il mercato globale del FemTech, valutato oltre 60 miliardi di dollari nel 2025, dovrebbe superare i 120 miliardi entro il 2033. C’è da considerare anche che molte delle realtà fem tech sfuggono ai tracciamenti ufficiali perché non sempre si configurano come startup tradizionali e non raccolgono investimenti esterni. Questo le rende invisibili sia a livello nazionale che internazionale, tanto che l'Italia risulta penalizzata dal bias sugli investimenti che esclude le realtà piccole e autofinanziate dai conteggi ufficiali. L'obiettivo dell'Osservatorio resta proprio quello di dare visibilità e, per "raccontare una storia che esiste da tempo ma che nessuno ha mai misurato".

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