Elogio della cura della follia

Prego, scomodati ché parliamo dell’elogio della cura della follia. Ho passato due anni in un SPDC , l’acronimo per riferirsi ai reparti di psichiatria degli ospedali pubblici. Ci ho svolto la metà del mio tirocinio di specializzazione in psicoterapia e oltre ad essere stato estremamente formativo, oggi mi dà l’opportunità di darti il boccone scomodo settimanale, lettore. In questi giorni lo scrittore Paolo Cognetti ha rilasciato al quotidiano la Repubblica un’intervista mediante la quale ha riferito dei suoi due TSO a fronte di una diagnosi di disturbo bipolare, che tuttavia non commenterei - perché non l’ha rilasciata a me. Non ci ho parlato, non lo conosco, non so con quale intenzione o intonazione abbia espresso alcune riflessioni - ed io a proposito di certi racconti sono una feticista della prima stesura originale e preferisco parlare di quello che so perché l’ho colto di prima mano. Conosco diverse persone che hanno subito il trattamento sanitario obbligatorio - alcune giovanissime. Nessuna di loro né dei famigliari la riferisce come l’esperienza cautelativa e necessaria che dovrebbe essere, a tutela dell’incolumità di una persona che nella fase più acuta del suo dolore rischia di fare male a se stessa e agli altri. Resta attaccata al ricordo la coercizione, la contenzione, l’impatto di certe scene difficili da scarnificare dalla memoria. La madre di Elettra in seduta ha minacciato per mesi che “l’avrebbe fatta pagare” ai medici che avevano legato sua figlia al letto per poterla sedare fino a ridurla a un’automa. Non ricorda che i vicini chiamarono il numero di emergenza perché la ragazza stava rischiando di uccidere la nonna a colpi di sedia in preda ad un incontenibile attacco di rabbia e violenza, e quando arrivò in ospedale dovettero tenerla in quattro - lei che pesava cinquanta chili - perché quando la mente non ci assiste, il corpo supplisce con la forza di Maciste. Anche Alioscia ricorda con dolore e commozione il suo primo TSO, che teme lo abbia segnato a vita. Per lui è un ricordo in tono minore che avesse sfondato con un pugno la porta a vetri convinto di poterci passare attraverso come aveva visto fare in un film, e che con i frammenti minacciasse di scuoiarsi le mani per poter lanciare le ragnatele e appendersi alle pareti come l’Uomo Ragno. Nel tentativo di salvarsi, ha bisogno di spostare un po’ più in là della coscienza gli episodi di delirio e di concentrarsi piuttosto su come i dottori non siano stati di aiuto, gli abbiano cambiato decine di volte la terapia, l’abbia di fatto abbandonato ai servizi territoriali sovraccarichi dopo le dimissioni. Ho conosciuto anch’io psichiatri annoiati, cinici e irrispettosi verso i pazienti, sentito frasi irricevibili e volgari rivolte loro, avvertito prima il dubbio poi diventato constatazione che tra noi curanti e le persone ricoverate l’unica differenza sostanziale fosse che noi indossassimo il camice - o non tutti avrebbero notato la differenza. Va detto però che la cura della mente è lunga e difficile, la diagnosi non sempre azzeccata al primo colpo, la prescrizione farmacologica una scommessa tanto per chi la fa, quanto per chi poi deve prenderla con regolarità e senza iniziative personali. Non da ultimo, è fatta dalle persone, che non solo sono fatte di acqua e fallimenti, ma se hanno scelto di lavorare con la malattia mentale hanno di fatto dovuto scegliere a loro volta se diventare psichiatri o psicotici, come mi disse una volta Massimo Picozzi. Ho in mente che il reparto di Psichiatria non sia un bel posto, che sia chiuso a chiave mentre quello di Otorinolaringoiatria no, ma ho anche in mente che il motivo risieda nel fatto che quando si sta molto male si può non rispondere di se stessi e compiere agiti che non si sono nemmeno scelti - caso nel quale andrebbero indubitabilmente rispettati. Accadde per esempio a Rodolfo, alcolista, che un giorno riuscì ad uscire dal reparto, bevve fino a non essere più presente a se stesso e si buttò sotto la metropolitana. Naturalmente spero non ci sia bisogno di specificare che il trattamento sanitario coatto vada inteso in modo diverso da una privazione della libertà: lo è. Va però altresì detto che anche la follia non è altro che lo stato di prigionia per eccellenza - quello dentro se stessi. In fase di alterazione acuta degli equilibri psicofisici non si è - proprio malgrado - in condizione di scegliere per sé o comportarsi al proprio meglio: si tratta purtroppo della condizione strutturale dell’essere matti. … guarda che lo vedo il tuo sopracciglio alzato. “Follia”. “Matti”. Ma come mi permetto? Che parole sono? Se al giorno d’oggi moltissimi sostantivi e aggettivi sono diventati impronunciabili in nome di un linguaggio ripulito da ogni rischio di suscettibilità, quelli legati alla malattia mentale lo sono da sempre. Guai a dire che zia Erminia che vive in una casa infestata dai giornali che raccoglie per strada è matta, è solo fatta così, basta non far entrare nessuno. Ma no che la madre di tre bambini piccoli che si rivale fisicamente e verbalmente su di loro ogni giorno non è matta, basta colpevolizzare la maternità, vorrei vedere voi, è giustamente solo stravolta e senza aiuti. E che dire di quel padre che tiene intere cartelle di fogli excel dove cataloga le date di scadenza di ogni prodotto della dispensa? È semplicemente un tipo molto organizzato, i matti sono altri. Ebbene, provo a dirvi io chi siano per esperienza i matti e cosa sia la follia. I matti siamo noi, tutti. Tra chi lo è di più e chi lo è di meno, tra chi lo è per poco e chi ne fa una condizione di vita, l’unica differenza sta in una questione di quantità, perché qualitativamente siamo tutti fatti dello stesso materiale frangibile. Quando un grande amore ci lascia e non ci alziamo più dal letto nemmeno per andare in bagno. Quando pesiamo quarantotto chili ma non mangiamo per non ingrassare. Quando ci stordiamo nel fine settimana per sentire che abbiamo una vita almeno vagamente emozionante. Quando sbottiamo e non sappiamo perché. Quando siamo cattivi senza riuscire a frenarci e ci accorgiamo di goderne. Quando non dormiamo, quando riempiamo tutto il tempo a disposizione pur di non pensare, quando non prendiamo gli aerei perché abbiamo paura che cadrà proprio il nostro, siamo matti. Certo, anche quel tipo bizzarro che dice in giro con convinzione di essere il cugino di Bruce Lee, lo è. Lo è anche più di colei che non rinuncia minimamente ad ogni possibile forma di perfezionismo in ciascun ambito della sua vita - l’importante è che capiamo che però lo sono entrambi. Non il primo sì e la seconda no. Sono matti tutti e due, con gradi di severità e conseguenze differenti, ma non è solo il primo ad essere folle - e tutti gli altri salvi. Cantava magistralmente Simone Cristicchi: “I matti siamo noi quando nessuno ci capisce/quando pure il tuo migliore amico ti tradisce”. Andrebbe inserito nei manuali di psicodiagnostica, perché poca letteratura saprebbe dirlo meglio di così. Essere pazzi significa essere contenitori troppo piccoli per dolori troppo grandi, che non sapendo più mettere da nessuna parte diventano calamità innaturali di sofferenza che ci travolgono al punto - a volte - da pretendere l’uso di medicine, di interventi esercitati con forza, di assunzione di decisioni e responsabilità da parte di persone che non sono il diretto o la diretta interessata. Attenzione a far venire paura della cura. Sono la negligenza, la trascuratezza e l’omissione a doverci terrorizzare.

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