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Diabete tipo 1, Ambrosini e la malattia del figlio: "Abbiamo bisogno di una cura"

Salute e Benessere

Giulia Mengolini

©Ansa

"È importante riconoscere i sintomi, si possono salvare delle vite". Nella Giornata mondiale del diabete, l'ex calciatore del Milan racconta il momento difficile dell'esordio di suo figlio Alessandro, avvenuto a 2 anni e mezzo, e ribadisce il suo impegno per sostenere la ricerca. Perché l'insulina è una terapia salvavita, ma il diabete di tipo 1 non ha ancora una cura

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Alessandro ha tre anni. Da un anno indossa 24 ore al giorno due dispositivi: un microinfusore, che serve a erogare l’insulina per permettergli di vivere, e un sensore di monitoraggio continuo della glicemia, per controllare costantemente il valore del glucosio nel suo sangue - che suona quando si alza o si abbassa troppo. Alessandro ha il diabete di tipo 1, una patologia cronica di origine autoimmune ancora poco conosciuta e spesso confusa con quello di tipo 2, detto anche “alimentare”, che insorge in età avanzata. In Italia di diabete di tipo 1 soffrono circa 180 mila persone (rappresenta il 10% dei casi di diabete), e a oltre un secolo dalla scoperta dell’insulina - che va somministrata per via esterna perché non viene più prodotta dal pancreas - non esiste ancora una cura. I pazienti sono costretti a un controllo costante della glicemia, 24 ore al giorno. E nel caso dei piccolissimi, sono i genitori a dover imparare in fretta la gestione al momento dell'esordio della malattia, in una fase emotivamente difficile, spesso complicata dal rifiuto di una diagnosi senza data di scadenza.

 

Il padre di Alessandro è Massimo Ambrosini, ex centrocampista del Milan, che a marzo ha raccontato pubblicamente le difficoltà che ha comportato nella sua vita e in quella della moglie Paola un esordio di diabete in un bambino così piccolo. “La mia vita e quella della mia famiglia sono state letteralmente sconvolte dalla malattia di nostro figlio più piccolo. Una malattia che, anche se non si vede, può avere delle conseguenze gravissime", ha detto in un video realizzato insieme a Fondazione Italiana Diabete, con cui Ambrosini da mesi si impegna nella raccolta fondi per trovare una cura. In occasione del 14 Novembre, Giornata Mondiale del diabete, Sky TG24 lo ha incontrato. Perché parlare di diabete infantile può portare anche a riconoscere i sintomi e portare a diagnosi tempestive.
 

Come è avvenuto l’esordio di Alessandro?

Era settembre 2022, aveva due anni e mezzo. Aveva i classici sintomi tipici del diabete di tipo 1: faceva tantissima pipì, aveva molta sete, aveva perso peso. Per fortuna mia moglie ha saputo riconoscerli. Dopo cinque giorni che notava che il pannolino di nostro figlio era colmo di pipì ha allertato la pediatra. E poi siamo corsi in ospedale. Per fortuna ce ne siamo accorti in tempo e abbiamo evitato il peggio: Alessandro ci è entrato camminando sulle sue gambe. La sua glicemia era molto alta, ma era cosciente.
 

In quel momento cosa sapevi del diabete di tipo 1?

Assolutamente nulla, neanche che potesse venire ai bambini così piccoli. Quando mia moglie vedendo il valore della glicemia è scoppiata a piangere io non avevo ancora compreso cosa stava succedendo, ho minimizzato. Poi piano piano in ospedale ho iniziato a capire qualcosa in più, e soprattutto mi sono reso conto che il periodo di ricovero era un periodo di “scuola”, un training per capire come gestire la patologia, non un periodo di cura. Perché una cura appunto non esiste ancora. E l’unica soluzione possibile è imparare a conviverci.

Qual è stata la vostra reazione da genitori?

Io e mia moglie abbiamo avuto reazioni diverse, ci siamo un po’ alternati. Nei primi giorni in ospedale, quelli di disperazione, ho cercato di sorreggerla. Aveva il rifiuto totale di quello che stava succedendo. Poi dopo tre o quattro giorni, quando sul corpo di Alessandro hanno attaccato sia sensore glicemico che microinfusore di insulina, le ho detto: “Dobbiamo metterci in testa che dobbiamo imparare, è l’unica soluzione”. Sono stati giorni molto duri. I fratelli di Alessandro invece hanno reagito con incredulità e rabbia, manifestando da subito protezione nei suoi confronti.
 

Alessandro è molto piccolo. Quali sono le difficoltà maggiori?

La difficoltà della gestione adesso è soprattutto pratica. Il microinfusore va cambiato ogni tre giorni e quando sente l’ago puntualmente piange, non riusciamo ancora a rendere questa azione serena. E poi non è facile gestire il calcolo dei carboidrati con un’alimentazione controllata e precisa.
 

Cosa vi ha aiutato nell’accettazione di questa diagnosi?
Io sono una persona abbastanza pratica, per carattere cerco sempre di accettare quello che non si può cambiare. Ad aiutare, nonostante sia doloroso per dei genitori vedere il proprio bimbo attaccato costantemente a dei dispositivi, c’è sicuramente anche la consapevolezza che oggi la tecnologia offre a chi ha il diabete di tipo 1 una qualità di vita migliore. E poi la testimonianza di chi ci è passato prima di noi è stata, ed è ancora, fondamentale.

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La condivisione spesso è una chiave verso l’accettazione. In questo anno avete sentito l’esigenza di conoscere altre famiglie con bambini diabetici?

Sì, e ci ha dato una grossa mano: penso sia un momento decisivo in questo percorso. Solidarietà e condivisione sono ancore a cui ci si aggrappa nei primi momenti di incredulità e disperazione. Se stiamo riuscendo a rialzarci è sicuramente anche grazie agli esempi di chi ci è passato prima di noi. Vedere persone che  gestiscono la patologia, che vivono “bene” anche se con maggiore fatica e tra controlli costanti, ci fa avere un po’ di ottimismo per il futuro.

Oggi è la Giornata Mondiale del diabete. Cosa si sa ancora poco del diabete di tipo 1 secondo la tua esperienza?

Mi sono reso conto che in pochissimi conoscono la differenza tra quello di tipo 1 – che non c’entra in alcun modo con l’alimentazione e lo stile di vita - e quello di tipo 2. Chi non lo vive non immagina quanto sia invadente nella quotidianità, quanto lavoro ci sia dietro.

Pochi mesi dopo l'esordio di tuo figlio, ti sei impegnato in prima linea per sostenere la ricerca con Fondazione Italiana Diabete, e continui a farlo.
Il mio impegno, grazie alla mia risonanza, è una conseguenza del rendermi conto del bisogno delle persone con diabete di tipo 1 di trovare una cura definitiva il prima possibile, e per farlo che la ricerca ha bisogno di fondi.
Bisogna sensibilizzare le persone, spiegare loro che cos’è questa patologia e far capire l’importanza della ricerca. E poi parlarne ha anche un'altra funzione: rendere consapevoli le persone che può succedere a tutti, e se si conoscono i sintomi si evita di arrivare, o portare i propri figli in ospedale in condizioni disperate. Riconoscere in tempo i sintomi purtroppo non cambia il finale, ma può evitare complicanze gravissime. E salvare delle vite.

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