Emicrania, i risultati degli studi 'real world' sono sempre più rilevanti

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In occasione del 52/o congresso della Società italiana di Neurologia a Milano, sono stati presentati dei nuovi studi sulla pratica clinica di 'real world che forniscono maggiori informazioni sul trattamento dell’emicrania

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In occasione del simposio 'Fremanezumab: cosa è cambiato in un anno', tenutosi al 52/o congresso della Società italiana di Neurologia a Milano, in programma dal 3 al 6 dicembre, sono stati presentati dei nuovi studi sulla pratica clinica di 'real world' che forniscono maggiori informazioni sul trattamento dell’emicrania. In particolare, la casa farmaceutica Teva ha presentato le nuove evidenze dello studio Pearl, Pan-European Real World, che in Italia ha coinvolto 354 pazienti provenienti da 30 centri diversi. In Europa, secondo una precedente indagine di Teva, sarebbero 41 milioni le persone che convivono con l'emicrania: questa, che colpisce principalmente la popolazione d’età compresa tra i 35 e i 45 anni, può influire sia sul rendimento lavorativo, che sulla capacità di essere partner o genitori. Non per questo, l’emicrania è considerata la prima causa di disabilità tra le giovani donne, e la seconda nel mondo. Il Fremanezumab protagonista del simposio, è un farmaco usato per prevenire l'emicrania.

Parola agli esperti
 

"Lo studio Pearl è uno di quegli studi definiti tecnicamente 'real life': vuol dire che il paziente viene gestito normalmente, come lo sarebbe dal suo medico curante o dal medico specialista, la differenza è che vengono raccolti in maniera capillare dei dati. Questo è importante perché negli studi clinici controllati vengono inclusi pazienti con caratteristiche selezionate e trattati secondo un protocollo ben preciso; le indagini 'real life' invece ci danno informazioni più utili per la gestione di questi pazienti nella realtà di tutti i giorni", ha spiegato l’ordinaria di Neurologia dell'Università di Pavia Cristina Tassorelli. Per l’esperta, è "fondamentale che le case farmaceutiche facciano questi studi perché raccogliendo informazioni in diversi centri riusciamo a mettere insieme una casistica importante e riusciamo ad avere delle indicazioni che sono sempre più forti". 

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Le altre dichiarazioni

 

Secondo Antonio Russo, responsabile del Centro Cefalee dell’Università della Campania 'Luigi Vanvitelli', intervenuto anche lui nella giornata, "il dato di ricchezza che ci danno gli studi 'real life' deriva dal fatto che abbiamo pazienti che incontriamo nella nostra pratica clinica, con le loro difficoltà e la loro storia di fallimenti con i precedenti farmaci. Ciò che osserviamo è quanto di più aderente possibile all’esperienza del neurologo clinico nella sua attività quotidiana". Nell’emicrania ci sono diversi criteri di valutazione della disabilità, che possono indicare quanto la malattia è grave nel singolo paziente. "Il Midas, il migraine disability assessment, ci dà un’informazione sull’impatto della malattia a 360 gradi sul paziente: è un buon indicatore, semplice e molto intuitivo, può essere utilizzato dal paziente, dal medico di base o dallo specialista, e ci dice quanto la malattia è grave e quanto impedisce a quel paziente di vivere vari aspetti della propria vita, come studiare, andare al lavoro o avere hobby. Ma potrebbe essere utile anche tenere conto dei giorni di emicrania al mese: dati preliminari suggeriscono che utilizzare entrambi, in aggiunta o alternativamente, potrebbe dirci qualcosa in più per capire meglio l’impatto della malattia sul paziente", ha concluso Tassorelli.

Conclusioni

 

Secondo l’Aifa, per avere la prescrizione e il rimborso dell’anticorpo, i pazienti devono avere minimo 8 giorni di emicrania al mese, e un punteggio Midas uguale o maggiore di 11. Secondo il professor Russo, nel futuro la ricerca potrà dirci il ruolo degli anticorpi monoclonali. Questa "sarà volta a identificare non solo i possibili cambiamenti nella plasticità neuronale e quindi nel funzionamento del cervello dei pazienti che portano avanti terapie con gli anticorpi monoclonali, ma soprattutto a individuare dei biomarcatori che ci permettano di comprendere se ci sono tipologie di pazienti che rispondono meglio, e in quali tempi, agli anticorpi. I dati a nostra disposizione finora suggeriscono che prima si agisce con anticorpi monoclonali migliore sarà l’aspettativa di efficacia del trattamento", ha concluso l’esperto.

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