I ricercatori dell’Mit hanno testato la capacità di AlphaFold di raggiungere l’obiettivo, analizzando le interazioni tra 296 proteine del batterio Escherichia coli e 218 composti antibatterici
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Nel corso degli anni, AlphaFold, l’intelligenza artificiale sviluppata da DeepMind e Google, ha compiuto delle imprese fuori dal comune. È riuscita, per esempio, a prevedere la struttura 3D delle 20mila proteine espresse dal genoma umano, dando vita a un “ritratto” unico nel suo genere. Inoltre, ha fatto la stessa operazione anche con quelle di altri venti organismi, tra cui il topo e il parassita della malaria, essenziali per la ricerca scientifica. Ora l’Ia è pronta per un’altra missione fuori dal comune: “dare la caccia” a nuovi antibiotici, così da migliorare la lotta ad alcune malattie.
La necessità di perfezionare AlphaFold
Si tratta di un’impresa che al momento sembra un po’ lontana dalle capacità di AlphaFold. Lo dimostra un nuovo studio, condotto dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e pubblicato sulla rivista Molecular Systems Biology, dal quale emerge che per sfruttare appieno tutte le capacità dell’Ia bisognerebbe migliorarne i modelli informatici usati per la previsione delle interazioni tra le proteine batteriche e i farmaci, non ancora abbastanza efficienti.
Sotto la guida di James Collins, bioingegnere del Mit, un gruppo di ricercatori ha testato le capacità dell’intelligenza artificiale di Google e DeepMind analizzando le interazioni tra 296 proteine del batterio Escherichia coli, presente nel microbiota degli esseri umani, e 218 composti antibatterici (inclusi antibiotici come le tetracicline).
Le difficoltà riscontrate dall’intelligenza artificiale
I metodi di simulazione delle interazioni molecolari, già usati con successo per fare lo screening di grandi quantità di composti contro un’unica proteina target, si sono dimostrati meno accurati quando si tratta di selezionare i composti rispetto a diversi potenziali bersagli. Queste situazioni mettono AlphaFold in difficoltà, rendendogli impossibile fare una previsione precisa e non basata sul “tirare a indovinare”. Questo risultato potrebbe dipendere dal fatto che le strutture proteiche inserite nel modello per la simulazione erano statiche, mentre nei sistemi viventi sono flessibili e cambiano spesso configurazione.