Grazie ad uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Padova è stato possibile far luce su quali siano i marcatori che nella neoplasia ematologica si associano al rischio di sviluppare la cosiddetta “sindrome di Richter”, ovvero l’evoluzione della leucemia in un linfoma aggressivo
La leucemia linfatica cronica è una neoplasia ematologica caratterizzata dall’accumulo di piccoli linfociti B maturi, cioè le cellule che producono gli anticorpi, nel sangue, nel midollo osseo e negli organi linfatici. È definita cronica perché ha quasi sempre un decorso molto lento, spesso senza sintomi o con pochi disturbi per il paziente, che può continuare a svolgere una vita normale per molti anni, senza terapia. Nella leucemia linfatica cronica i linfociti, pur essendo apparentemente normali, non sono non in grado di debellare le infezioni e di difendere l'organismo come dovrebbero. Di recente, un team di ricercatori dell’Università di Padova si è concentrato su quali siano i marcatori che nella malattia si associano al rischio di sviluppare la cosiddetta “sindrome di Richter”, ovvero l’evoluzione della leucemia in un linfoma aggressivo.
I rischi legati alla “sindrome di Richter”
La leucemia linfatica cronica, si legge in un comunicato diffuso sul sito dell’ateneo patavino, è un tumore raro ma il tipo più frequente di leucemia che colpisce la popolazione occidentale. Tra le complicanze vi sono malattie autoimmuni, seconde neoplasie e come detto proprio la “sindrome di Richter”, come rilevato dal dottor Andrea Visentin, ricercatore del dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e primo autore dello studio, pubblicato sulla rivista “Haematologica”. Proprio quest’ultima “è la più rara ma grave complicanza di questa leucemia, dato che la sopravvivenza di questi pazienti è inferiore ad un anno”, ha proseguito l’esperto. I ricercatori, in quest’ottica, hanno identificato i principali marcatori associati al rischio di sviluppare la sindrome e ne hanno poi integrato i dati, riuscendo a sviluppare una sorta di “score prognostico”. Utilizzando questo strumento, infatti, al momento della diagnosi della leucemia linfatica cronica sarà possibile identificare i rischi di sviluppare la “sindrome di Richter” a distanza di 10 anni (3% nel basso rischio, 31% nell'alto rischio). Tra le anomalie responsabili della sindrome, hanno scoperto gli studiosi, la delezione o mutazione del gene TP53, lo stato mutazione dei geni per la porzione variabile delle catene pesanti delle immunoglobuline (IGHV), e la presenza di almeno 3 alterazioni dei cromosomi.
Un altro studio sul tema
Sul tema, tra l’altro, i ricercatori dell’ateneo veneto sono stati protagonisti di un secondo studio, da poco pubblicato sulla rivista scientifica “American Journal of Hematology”, condotto nello specifico dagli esperti del dipartimento di Ematologia. “Il trattamento della leucemia linfatica cronica è radicalmente cambiato nell'arco degli ultimi 10 anni. Oggi quasi più nessuno è trattato con chemioterapia, se non casi molto selezionati”, ha commentato Livio Trentin, professore di Ematologia e direttore della UOC dell'Azienda Ospedale Università. “Quasi la totalità dei pazienti riceve farmaci biologici mirati quali inibitori delle proteine BTK e BCL2. Dato il costo elevato di questi farmaci è fondamentale capire esattamente come utilizzarli al meglio e gestire i possibili effetti collaterali”, ha proseguito. “Per questo il nostro team, in collaborazione con ricercatori di altri 15 istituti sparsi su tutto il territorio italiano, è riuscito ad esaminare il più grande gruppo di pazienti con leucemia linfatica cronica con anomalie di TP53 trattati con ibrutinib, riuscendo ad analizzare non solo l'efficacia del farmaco ma anche i suoi effetti collaterali”.