Come definire correttamente la malattia e i malati? Giusto parlare di "casi sospetti"? A queste e altre domande hanno risposto gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in una guida terminologica sul tema
Le parole, in riferimento alla situazione legata alla diffusione del nuovo coronavirus, hanno un peso importante, anche e soprattutto in questa fase. A ribadirlo è l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, in collaborazione con l’International Federation of Red Cross e Red Crescent Societies (IFRC) e con l’Unesco, ha pensato di redigere una vera e propria guida, in particolar modo rivolta alle istituzioni, ai media e alle organizzazioni che lavorano nell’ambito, con l’intento di fare quanta più chiarezza possibile. (Pronto il piano per terapie intensive)
Come definire la malattia e i malati
Obiettivo degli esperti, dunque, stigmatizzare, a partire dai termini da utilizzare. E allora ecco cosa fare e cosa non fare quando si tratta dell’argomento. E’ corretto parlare della nuova malattia da coronavirus, indicandola come COVID-19. Il nome ufficiale, tra l’altro, è stato scelto deliberatamente per evitare fraintendimenti: 'CO' sta per Corona, 'VI' per virus e 'D' per malattia, il 19 è legato al fatto che la malattia è emersa nel 2019. Non è corretto, invece, associare luoghi o etnie alla malattia: non si tratta di un "virus di Wuhan", di un "virus cinese" o di un "virus asiatico". In quest’ottica è giusto parlare di "persone che hanno COVID-19" o ancora di "persone che sono in cura per COVID-19" o "persone che sono morte dopo aver contratto COVID-19". Non corretto, invece, riferirsi a persone malate definendole "casi COVID-19" o, peggio ancora, "vittime". (La diffusione globale in una mappa animata)
No a “casi sospetti”
A proposito di situazioni non ancora definite dalle valutazioni dei medici, la guida dell’OMS suggerisce che sia giusto parlare di "persone che potrebbero avere COVID-19" o di "persone che si presume abbiano il COVID-19", mentre non è giusto parlare di "sospetti COVID-19" o di "casi sospetti". Quindi meglio riferirsi ai malati come persone che "hanno preso" o "hanno contratto" il COVID-19, non corretto parlare di persone che "trasmettono COVID-19", "infettano gli altri" o "diffondono il virus" poiché una definizione simile implica una trasmissione intenzionale e attribuisce una colpa. Gli esperti che hanno lavorato al documento, tra l’altro, scrivono che l’utilizzo di una terminologia “criminalizzante o disumanizzante crea l'impressione che chi ha la malattia abbia in qualche modo fatto qualcosa di sbagliato o sia meno umano di noi, alimentando così lo stigma, minando l'empatia e potenzialmente alimentando una maggiore riluttanza a farsi curare o a sottoporsi a screening, test e quarantena". (Dal primo caso ai contagi - LE TAPPE)
Utilizzare solo dati scientifici
A proposito dei rischi, gli esperti consigliano di parlare in modo accurato del rischio derivante da COVID-19, solo sulla base di dati scientifici e delle più recenti raccomandazioni fornite dalle istituzioni che lavorano costantemente sul tema. Non corretto, invece, è ripetere o condividere indiscriminatamente voci non confermate o prive di fondamento scientifico ed usare un linguaggio troppo sensazionalistico, scelto per creare paura. In quest’ottica, sono totalmente da evitare parole come "peste" oppure ancora "apocalisse".
Considerare positivamente i provvedimenti
Tra gli altri suggerimenti, comunque validi per chiunque parli del tema, quello di considerare in modo positivo l'efficacia delle misure di prevenzione e del trattamento messe in campo dalle istituzioni preposte. Per la maggior parte delle persone, infatti, “questa è una malattia dalla quale si guarisce e ci sono semplici passi che tutti possiamo fare per mettere al sicuro noi stessi, i nostri cari e i più vulnerabili”, dice la guida. Di contrasto, non giusto è enfatizzare aspetti negativi legati al tema o sottolineare messaggi di minaccia. “Dobbiamo lavorare insieme per aiutare a proteggere le persone più vulnerabili”, è il messaggio finale della guida.