Omicidio Elena Del Pozzo, cos'è la sindrome di Medea

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Il termine “sindrome (o complesso) di Medea” è stato utilizzato per la prima volta dallo psicologo Jacobs alle fine degli anni 80 per indicare il comportamento di una madre che mirava a distruggere il rapporto fra il padre (nel mito, Giasone) e i figli

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Per l'omicidio di Elena Del Pozzo la svolta è arrivata quando la madre, Martina Patti, ha confessato, dopo aver inscenato un rapimento con l'obiettivo di despitare le indagibi. In questi giorni c'è chi parla di “sindrome di Medea”, riferendosi alla tragedia greca che racconta di una donna che viene lasciata dal marito e per vendicarsi uccide i figli. Il termine “sindrome (o complesso) di Medea” è stato utilizzato per la prima volta dallo psicologo Jacobs alle fine degli anni 80 per indicare il comportamento di una madre che mirava a distruggere il rapporto fra il padre (nel mito, Giasone) e i figli, soprattutto in seguito a una separazione conflittuale. (LA DISPERAZIONE DELLA MAESTRA - LE PAROLE DEL LEGALE DI MARTINA PATTI)

Il caso di Catania

Lo riporta Wired, che ha sentito Michele Mezzanotte, psicologo psicoterapeuta studioso di mitologia e aspetti psicologici legati alla mitologia. “Non mi sento di dire con sicurezza che quello che è accaduto è riferibile a questa sindrome, ma dico che potrebbe essere e va valutato. E ci sono almeno tre ragioni che me lo fanno supporre. Il primo aspetto del complesso di Medea deriva dall’etimologia del nome stesso, che significa “scaltro, scaltrezza”. Nel caso in questione, da parte della donna c’è stato un tentativo di “essere scaltra”, perché dopo aver ucciso la figlia ha inscenato un rapimento. La seconda riflessione che mi viene in mente invece riguarda la gelosia, e a proposito di questo cito la frase di Jung ‘la gelosia è mancanza di amore’: la gelosia, soprattutto quella di Medea, quella che diventa una sofferenza psicologica acuta, è mancanza d’amore nei confronti di sé stessi e degli altri, e porta a una distruzione dei propri legami. In questo caso del legame madre-figlia. La terza riflessione riguarda la rabbia, perché l’uccisione è un atto di rabbia, di violenza. E, sempre ipotizzando, si nota che c’è stato un triplice spostamento dal punto di vista psicologico. Innanzitutto, probabilmente la donna ha vissuto un grande senso di rabbia nei confronti di se stessa per il fallimento del proprio matrimonio, ma invece di arrabbiarsi con sé stessa ha spostato la rabbia verso il marito e, in seguito, sulla nuova compagna del marito. Infine, lo spostamento della rabbia è caduto sulla figlia. Se fosse un complesso di Medea puro, la vendetta sarebbe direttamente nei confronti del marito, invece stando alle parole della donna omicida riguarderebbe maggiormente la nuova compagna e la gelosia per il rapporto che stava creando con la figlia. Possiamo intravedere quindi il complesso di Medea, ma non in forma pura”. 

In criminologia

E ancora: “In criminologia si dice che il raptus non esiste. Perché le cause determinanti delle azioni sono il vissuto, le esperienze, la condizione psicologica e il carattere. Parlare di raptus, invece, in qualche modo ci deresponsabilizza rispetto all’evento". Infine: "Il quadro psicologico comunque emergerà con chiarezza durante il processo. Una cosa che ci tengo a dire è che adesso è facile smuovere giudizio e indignazione, mentre è più difficile cercare di capire tutta la sofferenza che c’era prima e fare qualcosa per prevenire queste situazioni. Occorre sicuramente fare molta sensibilizzazione sull’argomento, perché riuscire a prevenire tutte le situazioni è impossibile, ma sensibilizzare è il primo passo”.

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