“Trump fa Trump”: l’anno del Tycoon

Tutto si può dire del Presidente Trump, tranne che il suo operato in questo primo anno di governo sia stato sorprendente. Straordinario probabilmente, dirompente di sicuro. Sorprendente, invece, no. Gli ultimi mesi prima delle elezioni del 2024 sono stati tutto un fioccare di libri, articoli e saggi dedicati a prevedere cosa sarebbe cambiato con un’eventuale Presidenza Trump. Gli esperti più perspicaci hanno tracciato un percorso che poi il Presidente ha seguito quasi alla lettera, come dando concretezza a un copione già scritto. Ci aspettavamo una diplomazia incentrata sui rapporti personali tra i leader, fatta di strette di mano e incontri a quattr’occhi. Così è stato. Trump, più unilateralista che isolazionista, si è dedicato freneticamente alla risoluzione delle principali crisi internazionali, spinto soprattutto dal desiderio di passare alla storia come un peacemaker e dal sogno mai abbandonato di ottenere il Nobel. La filosofia dell’“accordo a ogni costo”, però, ha prodotto intese traballanti, a Gaza e non solo lì, e rischia di produrne di gravemente sbilanciate, come in Ucraina. I rapporti personali di Trump con altri leader – vedi Putin – si rivelano spesso un vulnus, più che un punto di forza. Le istituzionali multilateraliste, dall’Onu all’Ue, per Trump sono il male assoluto, e questa Casa Bianca fatica a considerare il valore degli aiuti umanitari all’estero come strumento di leva diplomatica. La comunità internazionale, secondo il Presidente, è soprattutto un club di uomini potenti, un club di cui gli piace sapere di far parte. Al club appartengono senz’altro Putin e Xi Jinping, e quando Trump si riferisce a loro non si capisce mai del tutto se il cameratismo prevalga in lui sulla necessità di contrastarli. La legge del più forte vince su qualsiasi altra norma, in questo circolo ristretto, e ammesso che i governanti non decidano alle spalle dei governati, certo decidono sopra le loro teste. Il Presidente ha detto molto chiaramente che la guerra è un ostacolo al business, e il business un viatico per la pace. La famiglia Trump, però, fa affari con molti dei personaggi con cui il Presidente si trova a trattare in nome degli Stati Uniti, e questo suscita sospetti e perplessità. A livello internazionale la strategia commerciale della Casa Bianca, quantomeno ondivaga, ha aggiunto incertezza all’incertezza. Per il Presidente i dazi sono anche uno strumento di politica estera. Ammesso che funzioni, sono gli americani a pagarlo. Secondo Trump le tariffe stanno arricchendo gli Stati Uniti, ma se l’effetto sui prezzi è stato finora contenuto dipende soprattutto dal fatto che le aziende hanno assorbito la maggior parte dei rialzi. Difficile che siano disposte a farlo ancora a lungo. Alcune misure adottate da Trump hanno fatto calare i prezzi in certi settori, ma in molti altri è già avvenuto l’esatto contrario, e questa dinamica si intreccia con il deciso spostamento di ricchezza a favore dei più abbienti dovuto al piano fiscale varato dalla Casa Bianca. Le decisioni legate alla politica interna, come appunto il Big Beautiful Bill, sono quelle che hanno avuto gli effetti più dirompenti, ma in Italia la loro eco è arrivata un po’ attenuata dalla distanza. I CEO di innumerevoli aziende hanno ottenuto un accesso senza precedenti alla Casa Bianca, consapevoli di quanto sia utile ingraziarsi il Presidente ma anche di quanto sia pericoloso non farlo. La presidenza Trump, d’altronde, affonda le radici nei tentativi che alcuni politici e finanziatori della destra portano avanti da decenni, tentativi volti ad estendere il più possibile i limiti del potere esecutivo, a colpire duramente la burocrazia federale e a consegnare nelle mani di grande aziende private potere e influenza vastissimi. Trump si muove su un sentiero stretto, schiacciato tra chi gli ha dato i soldi e chi gli ha dato i voti : non sempre questi due gruppi coincidono, tantomeno le loro idee. Il carisma di Trump è ciò che finora gli ha consentito di convincere gli uni che stava facendo i loro interessi, mentre spesso faceva quelli degli altri, o semplicemente il proprio. La guerra di Trump alla burocrazia federale è stata spietata. La parentesi del DOGE, il Dipartimento per l’Efficienza suggerito da Elon Musk, è stata la più chiassosa, ma dietro ai tagli c’è soprattutto Russel Vought. Il lavoro del Direttore dell’Ufficio del Budget va avanti, lento e inesorabile, in linea con quel Project 2025 che lo stesso Vought ha contribuito a scrivere e che in campagna elettorale Trump ha ripudiato – almeno a parole - quando le proposte radicali in esso contenute stavano cominciando a creargli problemi di consenso. La lotta al governo federale è un’arma potente, perché consente di colpire più obiettivi contemporaneamente: ridurre fondi e forza lavoro significa infatti far rinsecchire in un solo colpo tutte le politiche alle quali erano destinati. È anche questo il metodo con cui Trump sta colpendo le iniziative considerate frutto dell’insensata wokeness sinistrorsa, dalle politiche di protezione e assistenza ai transgender, a quelle di controllo delle armi.. Oltre ad abbandonare la lotta alla crisi climatica, Trump ha aperto allo sfruttamento minerario, petrolifero e agricolo numerosi terreni federali finora inaccessibili. Un memo firmato a giugno conferisce al Presidente l'autorità di cancellare la certificazione di “monumento nazionale” che fornisce protezione a siti storici e archeologici. Molte delle iniziative della Casa Bianca sono tutt’ora al centro di feroci battaglie giudiziarie. Per diversi commentatori i tribunali rappresentano in questo momento l’opposizione più determinata alla deriva del trumpismo, ma buona parte di queste cause finirà nel collo di bottiglia della Corte Suprema, dove la maggioranza conservatrice dà a Trump più di qualche speranza. Il Presidente subisce i tribunali e li sfrutta, utilizzandoli per mettere in pratica quella retribution che aveva promesso ai suoi avversari prima ancora di ottenere il secondo mandato. Anche qui, poche sorprese: tra incriminazioni, licenziamenti e scorte revocate il club di coloro che sono stati colpiti dalla vendetta trumpiana è affollatissimo e comprende più o meno tutti coloro che il Presidente aveva messo nel mirino prima del novembre 2024. Ai media spetta un posto d’onore nella lista delle idiosincrasie presidenziali. Dalle cause contro intere aziende ai pass ritirati ad alcune testate, dalle offese ai reporter in mondovisione alla pagina online creata per mettere alla berlina i cronisti sgraditi, Trump ha un’idea molto particolare di cosa significhi essere un giornalista. Quando nello Studio Ovale, alla presenza di Mohammed bin Salman, Mary Bruce ha fatto una domanda sull’omicidio Kashoggi, di cui secondo l’intelligence americana il Principe Saudita è il mandante, Trump ha zittito la giornalista della Abc affermando che stava mettendo in imbarazzo un gradito ospite. Questo presidente è straordinariamente accessibile: parla spesso e volentieri e risponde a tutte le domande, ma dà l’impressione di farlo perché in fondo non si sente in dovere di aderire ai fatti, né di consentire ai cronisti di mettere in imbarazzo lui o i suoi ospiti. Raccontare questa America significa raccontare un Paese in cui ognuno ha le sue verità, spesso inconciliabili. Prendiamo l’immigrazione: gli ingressi al confine meridionale sono calati drasticamente, ma quando si parla di arresti ed espulsioni da una parte c’è la Casa Bianca, che definisce “criminali certificati” tutti o quasi i destinatari dei provvedimenti, dall’altra diverse fonti indipendenti secondo le quali solo una piccola parte di chi finisce in manette ha precedenti per reati più o meno gravi. Per la sinistra il vero obiettivo di Trump è creare un clima di terrore tra la popolazione immigrata. Un presidente che voglia accrescere il proprio potere ha buon gioco nel farlo se si trova a gestire un’emergenza, vera o presunta, se può identificare un nemico e se può scatenargli contro un esercito. Con i raid dell’Immigration and Custom Enforcement contro i migranti senza documenti e contro il “nemico interno” di Antifa, dicono i critici, Trump sta facendo proprio questo. L’invio della Guardia Nazionale nelle metropoli a guida democratica è un guanto di sfida lanciato all’opposizione e all’architettura istituzionale americana. I democratici gridano allo scandalo, e questo non sorprende, ma anche a destra c’è chi comincia a mostrare insofferenza. Non per i raid dell’ICE, certo, piuttosto per la reticenza sullo scandalo Epstein, per l’eccessivo impegno profuso nelle crisi internazionali e per una golden age che si rivela negli stucchi dorati della Casa Bianca ma resta lontana dagli scaffali dei supermercati. “Trump fa Trump”, e questa per molti americani è una risposta sufficiente a soddisfare qualsiasi domanda. Un Presidente che a volte impone i dazi e a volte li revoca, che vuole il Nobel e invia navi in Venezuela, che parla di pace e ribattezza il Pentagono Dipartimento della Guerra, come se - emulo del Mario Brega reso celebre da Verdone – fosse sempre sul punto di dire che la sua mano “può essere ferro o può essere piuma”. A quasi un anno dall’insediamento in molti cominciano a chiedersi: è vera gloria? Non è detto che debbano aspettare i posteri per pronunciare l’ardua sentenza.

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Federico Leoni