Nel West di Emanuele Mengotti: tra mito, memoria, frontiera

Ho sempre pensato che ci siano due modi di viaggiare: il primo è quello orizzontale di chi punta a visitare il maggior numero di luoghi possibile, e dunque è costretto a muoversi da un posto all’altro restando sempre – diciamo così - sul pelo dell’acqua; l’altro è il modo verticale di chi viaggia per davvero, ed è disposto a sacrificare il numero dei luoghi che conosce in cambio della possibilità di conoscerli veramente. Emanuele Mengotti ha scelto la seconda categoria. La sua area di interesse non sono semplicemente gli Stati Uniti, ma più precisamente quella zona vasta che siamo soliti chiamare Far West, e che è un misto straniante di realtà e immaginazione. Emanuele l’ho conosciuto mentre girava l’Italia per promuovere i suoi documentari “Red Sky at Night” e “West of Babylonia”. A vederlo, con il suo accento veneziano, gli occhi azzurri di un austriaco e gli abiti da Buffalo Bill, già si percepiva la sua capacità di tenere insieme più mondi, anche molto diversi tra loro. Tutti i mondi di Emanuele Mengotti ora trovano posto al NOAM, il Festival del Cinema Nord Americano che si tiene a Faenza dal 12 al 16 novembre 2025. Mengotti, però, non parteciperà come filmaker, ma come fotografo, debuttando in anteprima mondiale con la mostra multimediale “Western Simulacrum” Com'è nata l'idea per questa esposizione? Da quattro anni scatto Polaroid in tutto il West americano, ma il primo vero seme di questa mostra è stato piantato da mio padre, quando mi ha donato il suo West, quello di un uomo che alla mia età conosceva solo il West dei film. Quando ero bambino mi costruì un piccolo tomahawk, un’arma cerimoniale e da combattimento dei nativi americani, fatta con un legno e una pietra. In quel gesto così innocuo e carico d’amore mi aveva investito di un destino, mi aveva iscritto a uno schieramento e mi aveva dato un’arma con cui combattere le mie guerre. Anni dopo abbiamo visitato insieme il West, io e mio padre. Questa volta ero io a guidarlo, a mostrargli il mio West. Non era quello che lui conosceva, ma nei suoi occhi ho visto la stessa meraviglia che mi aveva trasmesso da bambino. Era felice. Forse, conoscendo il mio West, ha conosciuto davvero me. E poi tuo padre è venuto a mancare. Un anno fa. Quando Andrea Valmori, direttore del festival NOAM dedicato al cinema nordamericano, mi ha chiesto di realizzare una mostra per l’edizione di quest’anno, ho accettato con qualche esitazione: la data di apertura sarebbe coincisa con il primo anniversario della sua scomparsa. Poi ho capito che quella mostra non doveva essere sul West, ma sull’uomo che me l’ha fatto amare. Da lì tutto ha preso forma, dal lavoro sonoro di Enrico Coniglio ai contributi preziosi di Gian Marco Magnani, Fabio Monducci e Matteo Vandelli. La mostra ha cambiato pelle più volte. Questo è il bello dell’arte: a volte funziona da sola, basta lasciarla accadere. Io continuo a esplorare il West, e ogni frontiera che attraverso è un modo per incontrarlo ancora. A proposito di frontiera. Esiste ancora la frontiera, nel west? La frontiera è viva, pulsa, sanguina, combatte per essere vista e riconosciuta, ma spesso passa sotto traccia. Gli Stati Uniti non sanno realmente cosa hanno nel loro cosiddetto backyard. È lì che la frontiera continua a esistere: nei deserti, nelle cittadine minerarie abbandonate, nei diner aperti tutta la notte, nei volti di chi vive ai margini. Oggi la frontiera non separa più l’uomo dal territorio, ma l’uomo dalla sua memoria. È diventata uno spazio mentale, una soglia interiore dove convivono mito e realtà. È l’eco di una promessa che si rinnova ogni giorno, anche quando non c’è più nulla da conquistare. Nel mio lavoro cerco proprio questo: quel punto di frizione in cui il mito resiste, dove l’immaginario continua a proiettarsi sul paesaggio come un riflesso che non si riesce a cancellare. Nel West si arriva probabilmente forti di certi stereotipi, legati ai film che abbiamo visto, ai fumetti che abbiamo letto e così via. C'è qualche stereotipo che hai visto crollare di fronte alla realtà delle cose? Qualcosa che era completamente diversa da come te l'aspettavi? Tutti gli stereotipi del West sono in parte veri e in parte falsi. Il West che ci viene raccontato è, in fondo, un indoramento della pillola. La violenza eroica si trasforma in violenza domestica. Il nativo non è più sconfitto da una guerra, ma da un’oppressione sistemica che dura tuttora. Quel West perfetto e ordinato, fatto di buoni e cattivi, è sempre piaciuto poco al pubblico europeo, che ha trovato più autentico il West polveroso e ambiguo di Sergio Leone e di tanti altri autori e autrici che hanno scelto di mostrare la frontiera per quello che è: sporca, imperfetta, contraddittoria. Sono d’accordo. E il motivo per cui ci piace tanto è che, come tutti i luoghi selvaggi, ci obbliga a vedere le cose per quello che sono, un miscuglio indissolubile di bene e di male. Già, nel vero West non c’è spazio per la purezza. Ci si muove nelle zone grigie, si sopravvive tra le pieghe della frontiera. Molti western sono stati illusioni. Ci hanno venduto un sogno alternativo e noi ci abbiamo creduto, come è giusto fare, perché nel cinema la sospensione della realtà è la regola del gioco. Ma si sa, quella magia dura solo quanto il film. Eppure, in molti posti degli Stati Uniti, se chiedi a un ragazzino: is that you, John Wayne? Sei tu, John Wayne? Lui ti risponderà di sì, con le parole o con i gesti. Perché, in fondo, anche oggi, ognuno di noi continua a cercare il proprio ruolo dentro quel mito. L'America che siamo abituati a raccontare oggi, quella di Trump, della polarizzazione, delle tensioni sociali, sembra molto diversa da quella selvaggia ma genuina del vecchio west. Hai trovato qualcosa della nuova America - diciamo così - nella vecchia? L’America non ha smesso di fingere: ha solo cambiato maschera. Invece di inventarsi nuovi miti, torna alle sue origini, ripete sé stessa. Non è un caso che oggi persino i canali governativi usino immagini generate con intelligenza artificiale che imitano il tono e lo stile delle vecchie campagne di propaganda della Grande Guerra. La frontiera non è scomparsa, si è spostata. I duelli non si combattono più a mezzogiorno su strade polverose in cittadine di frontiera, ma sui social media, a colpi di fake news e video manipolati. Solo che, ogni tanto, parte davvero un colpo. E se non si è fortunati, più di uno: nelle scuole, ai concerti, nei centri commerciali. La giustizia è tornata ad essere un affare personale, e la sentenza è sempre definitiva. Il West, in fondo, non è mai sparito: ha solo cambiato scenario. Da filmaker sei abituato a guardare la realtà attraverso un obiettivo, a creare delle immagini, ma nel West c’erano delle immagini già pronte che ti aspettavano. Mi riferisco alle vecchie cartoline… Sì, scattando le mie foto ho spesso alleviato la solitudine di quelle terre lontane inviando cartoline agli amici e ai miei cari, un gesto ormai fuori dal tempo. In quei piccoli stand polverosi ai bordi delle highway trovavo spesso vecchie cartoline piegate, dimenticate. Lì ho iniziato a collezionarle, a leggerle, a capire che con loro non viaggiava solo il mio messaggio, ma anche quello di un’intera nazione che stava definendo la propria identità: “Io sono questo”. Alcune delle tue vecchie cartoline sono esposte nella mostra. Ce n'è una che ti ha colpito o commosso più delle altre? "Scritta da Torrington, Wyoming 14/7/67 Cara Edna Questi giorni d’estate del 1967 portano raduni in molte città del West. Le miglia e le persone si mettono il loro meglio addosso e mostrano la manualità di cui sono capaci. Questa volta non riusciremo a passare per nessuna di quelle tappe di spettacoli per andare a trovare amici e visitare dei posti. Ieri abbiamo preso il sentiero sul retro fino a Guernsey per vedere i solchi rimasti nelle rocce dell’antico Oregon Trail. Una grande formazione rocciosa lì aveva nomi incisi sopra da molti anni, la data più antica che ho visto era il 1849. Lo chiamano Register Rock. Là fuori, tra l’artemisia e i ginepri, c’erano molti fiori selvatici, allodole dei prati e gazze: era un luogo tranquillo. Il paese appare in forma, solo le notizie ci ricordano che il mondo non è in pace. Spero che tutto vada bene per te e i tuoi. Con affetto, Chris". Wow! Già. È una cartolina del 1967, scritta da Chris dal Wyoming, è un piccolo miracolo di contraddizioni. Da un lato c’è la serenità del West, i raduni estivi, la calma tra l’artemisia e i ginepri; dall’altro, la frase finale che pesa come una pietra: “Il paese appare in forma, solo le notizie ci ricordano che il mondo non è in pace.” Era il 1967, nel pieno della guerra in Vietnam e delle proteste per i diritti civili. L’America sorrideva nelle sue cartoline, ma fuori dall’inquadratura qualcosa stava cedendo. In quella voce sento ancora il mito del West che resiste: un’America che si compiace della propria immagine, che gioca a essere eroica, libera, immensa. Ma qualcuno bussa alla porta: è il presente, che chiede di entrare. Il West non può bastare. È come chiedere a un bambino di smettere di giocare e partecipare al mondo degli adulti. Ma come può un bambino che ha sempre giocato a fare il cowboy appoggiare la sua arma senza esitazione? Mi immedesimo in Chris, in quell’uomo che sente ancora la bellezza del suo Paese e insieme il peso del tempo. Forse in fondo tutti noi viviamo così: sospesi tra il mito e la realtà, incapaci di rinunciare del tutto all’uno o all’altra. È un modo molto cinematografico di vivere la propria vita. Nello stesso tempo al di qua e al di là dell’obiettivo. Oggi più che mai. Viviamo in un’epoca in cui nella quotidianità tutto sembra al proprio posto, tutto appare. Eppure la realtà bussa, ma non entra mai davvero nelle nostre vite. Restiamo davanti alla porta, come spettatori del mondo che ci scorre accanto. Forse il West non è mai scomparso, si è solo trasferito dentro di noi: un luogo interiore dove il desiderio di crederci ancora vince, per un attimo, sulla paura di guardare davvero.

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Federico Leoni