Viaggio a Borena, la terra senza più acqua

Arba Minch, la città in cui arriviamo dopo poco più di un’ora di volo da Addis Abeba, in amarico significa “quaranta sorgenti”. Un centro colorato e vitale , che deve il suo nome alle numerose sorgenti di acqua fresca presenti nella zona. Mi sembra un po’ paradossale, se penso che sono arrivato fino a qui, nel profondo sud dell’Etiopia, per realizzare un reportage sulla siccità che ha colpito la regione di Borena una vasta area che si trova a poco più di 250 km da qui. Impieghiamo quattro ore di macchina per raggiungerla da Arba Minch. Il viaggio è piacevole, il paesaggio splendido. Almeno inizialmente. Neba, il ragazzo etiope alla guida, conosce qualche parola di italiano. Scopro da lui qualcosa in più sull’eredità linguistica che i fascisti hanno lasciato durante la vergognosa avventura coloniale. Ad esempio, che molte parole che si impiegano in ambito meccanico, come cacciavite, carburatore, gommista, targa, aeroplano o machìna , sono utilizzate anche in Etiopia. Parliamo di questo e di cibo locale. Neba mi racconta di come il Kifto, un piatto tradizionale etiope a base di carne cruda, sia considerato una prelibatezza assoluta, la specialità che non può mancare quando devi celebrare qualcosa, rigorosamente consumato col pane injera, fermentato e spugnoso, tipico di quasi tutto il Corno d’Africa. L’atmosfera si fa meno allegra quando, chilometro dopo chilometro, cominciamo a vedere il paesaggio cambiare intono a noi: prima rigoglioso e ricco di pascoli, poi via via sempre più siccitoso e secco. Quello che si presenta di fronte ai miei occhi va ben oltre quello che mi ero immaginato: i fiumi ridotti a rivoli, se non completamente secchi, così come i bacini, un tempo ricchi d'acqua dopo la stagione delle piogge, si presentano, invece, come delle vere e proprie spianate di sabbia e argilla, utili solo per far transitare il bestiame. Da ormai sette anni, le stagioni delle piogge non danno acqua sufficiente a questa popolazione per vivere. "Non abbiamo più acqua – ci racconta Elema, una donna incontrata lungo il nostro percorso - l'unica che abbiamo è questa e, come vedete, non è pulita. Se non piove, questa è l'unica acqua che abbiamo". Elema è una donna etiope, di etnia Oromo. Madre di tre figli e in attesa del quarto, ha compiuto da non molto quarant'anni. Gli ultimi sette sono stati quelli più duri, quelli in cui ha dovuto lottare per la sua sopravvivenza, per quella dei suoi figli e quella del suo villaggio. Come tutte le persone che vivono qui, sta facendo i conti con una siccità senza precedenti, uno dei tanti frutti avvelenati del cambiamento climatico. "Noi abbiamo avuto scarsità d'acqua per molto tempo e ancora non abbiamo trovato una soluzione – ci racconta ancora - Prima, quando non avevamo questo problema, avevamo sia gli animali sia il latte. Ora non più e l'unica cosa che abbiamo è l'acqua di questa pozza. È un’acqua contaminata e piena di germi. Trattiamo quest'acqua chimicamente con i trattamenti che ci forniscono le organizzazioni umanitarie, ma il più delle volte non sono sufficienti. Se non abbiamo questi aiuti, la usiamo senza alcun trattamento. Ora la pozza non si è completamente asciugata. Quando non ci sarà più acqua, dovremmo percorrere molti chilometri per arrivare al primo pozzo". Strade che impongono ore di cammino sotto il sole, con una tanica da venti litri caricata sulle spalle, se manca un asino per portare il peso al posto tuo. Di questo grande sforzo fisico si fanno carico quasi sempre le donne. A causa di una combinazione di fattori sociali, economici e culturali, sono loro a svolgere la maggior parte delle attività maggiormente faticose: la cura della casa, dei figli, la raccolta delle risorse, dalla legna all'acqua, fino al lavoro nei campi. Una condizione che ritroviamo non solo in Etiopia, ma in buona parte dei Paesi dell’Africa subsahariana, soprattutto nelle aree rurali. Spesso, la gestione di tutto questo carico di lavoro porta le bambine ad abbandonare la scuola anticipatamente. Non sappiamo se abbiano o meno abbandonato la scuola, ma poco dopo il ponte che attraversa un fiume chiamato Masgerdo, ora completamente secco, incontriamo due ragazze, Dhaki e Gano. Si trovano vicine a una buca che hanno scavato nel letto di un piccolo lago, in secca a sua volta, simile a quelle che, da bambini, facevamo in spiaggia al mare, a ridosso della riva. La differenza è che per loro non è un gioco, ma una questione di sopravvivenza. Lavorano a turno, utilizzando, per attingere l’acqua, un contenitore in plastica attaccato ad un lungo bastone. Poi travasano il contenuto nella tanica in plastica. Si tratta di un’acqua velata e impura, eppure necessaria per la sopravvivenza di queste persone. Non senza conseguenze. I rischi per la salute, consumando acqua non potabile contaminata da germi e parassiti, sono facilmente immaginabili. Una risorsa necessaria alla vita che, in questa regione semidesertica del Paese, non è mai stata abbondante: le stagioni delle piogge, però, hanno sempre garantito alla popolazione l’acqua sufficiente. Non è più così da sette anni. Si stima che la siccità abbia avuto un impatto su circa un milione di persone e che abbia ucciso l’80% del bestiame. Per questo motivo, negli ultimi anni, centinaia di migliaia di persone hanno lasciato i loro villaggi, spesso nascosti nella vegetazione fitta della savana, per spostarsi, a volte solo di pochi chilometri, in aree più vicine alle strade e alle città, con lo scopo di rendersi in qualche modo più visibili agli occhi del Governo e delle organizzazioni umanitarie. È così che è nato, non lontano dalla città di Dubluk, il villaggio di Higo: è una sorta di campo profughi, che nel corso degli anni ha accolto dalle 6 alle 7mila persone, veri e propri migranti climatici. Alcuni si sono spostati di poco per stabilirsi qui, altri hanno percorso molti chilometri. È il caso di Gilo, una migrante climatica di quarant’anni, madre di quattro figli e nonna di molti nipoti, arrivata qui tre anni fa. “Ci siamo spostati perché tutti i nostri animali, asini, capre e mucche sono morti a causa della siccità – ci racconta - Perdendo i nostri animali abbiamo dovuto affrontare molti problemi: il più grande, la mancanza di cibo per i nostri figli. La nostra vita, da allora, è completamente cambiata”. Perdere gli animali, per queste persone, significa perdere tutto: non solo la loro unica fonte di sostentamento, ma anche la loro identità. Generazione dopo generazione, per secoli, la vita di chi vive in questa regione è stata scandita dai ritmi della pastorizia. Qui sono sempre stati pastori e vogliono continuare a esserlo. Ed è cercando di assecondare questa necessità ancestrale, così profondamente radicata, che Fondazione Cesvi, con il sostegno della Cooperazione Italiana, ha dato vita in questo territorio, in cui è presente da anni, a un progetto per sostenere queste persone. A spiegarcelo è Mattia Borelli, il Communication officer di Cesvi che ci ha accompagnato fino a qui. “Abbiamo progetti pensati per portare un po’ di sostegno economico, altri volti alla ricostruzione di pozzi per garantire l’accesso all’acqua. Questo, però, è un progetto un po’ diverso – ci racconta - Ha permesso la consegna di cinque capre a circa cinquecento famiglie, un numero sufficiente a ricostituire, nel giro di pochi anni, un piccolo gregge in grado di sostenere una famiglia: è un primo passo per permettere a questa gente di riprendere in mano la propria vita e la propria cultura”. È un progetto che si rivolge soprattutto alle donne, in particolare quelle con figli piccoli o ancora incinta. La volontà è, infatti, anche quella di contrastare la malnutrizione che colpisce in particolar modo i bambini. Un problema di cui parliamo con Yusra Umar, operatrice sanitaria che gestisce l’ambulatorio del villaggio di Higo. “La siccità ha cambiato molte cose – ci dice – Con la siccità sono cresciuti anche i casi di malnutrizione, che stanno aumentando ogni mese. È un problema grave. Una delle conseguenze è uno sviluppo ridotto del cervello. Se i bambini non sono nutriti adeguatamente nei primi due anni, rischiano un arresto della crescita. Se non vengono nutriti, sarà la prossima generazione a farne le spese”. Gilo è, a sua volta, molto preoccupata per i suoi nipoti, per le difficoltà che saranno chiamati ad affrontare. Oggi, però, il futuro sembra illuminarsi un po’ di speranza: è una delle beneficiarie del progetto di Cesvi e, poche ore fa, le hanno consegnato le capre. Sembra felice. Prima di salutarla, le chiediamo se sappia qualcosa del cambiamento climatico. Ci risponde di no. Non ne sa nulla. Come non sa nulla delle responsabilità che, da questo punto di vista, hanno le società occidentali, colpevoli della maggior quantità di emissioni. Come la maggior parte delle persone che vivono qui, ha un’opinione precisa di quello che sta accadendo: “Se non piove – ci dice – è per volontà di Dio. E un giorno torneremo ad avere tutta l’acqua di cui abbiamo bisogno”.

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Paolo Fratter