Martino Ferrario: “Dal call center al romanzo: una vita da Millennial”

Nelle ultime settimane vi abbiamo parlato di “8,6 gradi di separazione” di Giulia Scomazzon, un romanzo di formazione sulle disavventure alcoliche ed esistenziali della trentenne Alice. Poi è stata la volta di Luca Tosi che con il suo “Oppure il diavolo” segue Natale, 31 anni, in una lotta alla sopravvivenza quasi biblica. Da un lato i bar del Vicentino, dall’altra le piazzette romagnole, raccontati da due scrittori coetanei. Il nostro viaggio nella provincia italiana, fraintesa e feroce, prosegue in Brianza con un altro Millennial, al suo esordio. Si chiama Martino Ferrario e dopo innumerevoli lavori svolti e un diploma alla scuola Holden ha guidato per diversi anni una casa editrice, Casa Sirio, che oggi non esiste più, per poi approdare al marketing. Il distacco dai libri è stato solo apparente, forse era proprio la distanza di cui aveva bisogno per lanciarsi nell’impresa vagheggiata per una vita: scrivere una storia di suo pugno dall’inizio alla fine. Ci racconta i luoghi che conosce meglio, accompagnandoci tra le colline in cui è nato e cresciuto. Ma non aspettatevi la Brianza ripetitiva e noiosa scolpita nell’immaginario, preparatevi piuttosto a una Brianza noir e al cardiopalmo, in cui il bad boy Nico vive di espedienti, truffe, scorciatoie lambendo la criminalità con la C maiuscola. “Anche questo pezzo di Italia che può sembrare monotono ha un potenziale di esplosività”, sostiene e, in effetti, Ferrario ci mostra che anche un paesotto brianzolo può assomigliare a una contea del Maine alla Stephen King. Nico e i suoi sodali, la voce narrante Giacomo e la ipnotica Greta, entrano nella vita adulta negli anni ‘10 del Duemila e per questo in un mondo che corre all’impazzata, “Piacere, Nico” (Marotta e Cafiero9 è anche romanzo storico, perché ci riporta ai tempi in cui si mandavano ancora sms e i social avevano appena fatto capolino. Riscopriamo tra l’ironia della pagine una generazione di mezzo che si era illusa di essere padrona del proprio futuro. Qual è stata la molla che l’ha portata a scrivere questo libro? Una promessa che ho fatto ai miei amici. Nonostante io viva a Roma da tantissimi anni ormai, sono molto legato al posto in cui sono nato. Credo che la Brianza sia un universo meraviglioso da raccontare, perché è un micromondo come ce ne sono pochissimi in Italia: è un luogo ricco, in cui il lavoro non manca a differenza della maggior parte delle province italiane, tranquillo ma allo stesso tempo attaccato a Milano. Paradossalmente, nella mia fascia di età, sono praticamente l'unico nel mio paese ad essersene andato. Tutti gli altri sono rimasti, e la maggior parte di loro è felicissima di restare. La cosa interessante è che tutte queste possibilità e opportunità si trasformano in catene, che ti trattengono lì e che non ti fanno venire neanche la voglia di esplorare quello che c’è fuori. Chi si avvicina a questo libro pensa alla Brianza della ricchezza, dell'imprenditoria, della tranquillità, delle villette. E lei invece ci fa scoprire il lato noir. Ma è davvero così oscura la Brianza? Può esserlo, può essere molto noir, come ogni luogo. Io credo che nella Brianza si registri un tasso di “faccio le cose per divertimento” che è altissimo rispetto alla media, forse per spezzare la noia. I miei personaggi se ne fregano delle conseguenze e alla fine si ritrovano a confrontarsi con un giro più grande di loro, e lo fanno però sempre con quel sorriso e con quella indisponenza che, diciamo, caratterizza tante delle persone che conosco e che fa persino parte di me, sebbene io sia molto meno spregiudicato rispetto ai miei personaggi, e per questo un po’ li invidio. Qual è la narrazione dominante sulla provincia? Ho letto tanti libri sulla provincia, soprattutto italiana, e molto spesso è raccontata come un luogo triste e malinconico. Ma in realtà può essere esplosivo. Come del resto viene rappresentata fuori dai nostri confini. Per come sono fatto ho raccontato tutto questo con una falsariga di sorriso, la trovo una bella chiave di lettura, l'unica con cui io riesco a leggere il mondo. Si sente più il prudente Giacomo o lo scavezzacollo Nico? Io sono identico a Giacomo, anche se avrei voluto tanto essere Nico, avrei voluto essere un bad boy. Perché Giacomo? Perché Giacomo racchiude una serie di valori che mi rappresentano pienamente: la fedeltà cieca verso gli amici è qualcosa che mi ha sempre accompagnato. E gli assomiglio anche fisicamente, visto che sono alto quasi due metri. Ma è grazie a Nico che ho potuto mettermi alla prova. Da ex editore so che, quando gli autori raccontano personaggi troppo simili a se stessi, il risultato può essere noioso. Perché aspirava a fare il bad boy? Ci ho provato in tutti i modi, ma ho preso un sacco di botte, e quello delle risse è uno dei temi del libro, era il modo con cui discutevano i Millennial senza tuttavia oltrepassare certi limti, mentre adesso mi sembra sia un po' più rischioso discutere in giro, vedendo un la cronaca. Adesso tirano fuori i coltelli. Quando ero ragazzo c’era questa volontà di sopravvanzare l’altro nella comunità di giovani senza distruggerlo. Io di solito ero quello sopravanzato, nonostante le dimensioni fisiche importanti. In tanti vorrebbero fare i bad boy, però quelli cattivi veri sono pochi. Questo romanzo è anche un affresco sui Millennial su cui si dice tutto e il contrario di tutto. Cosa ha capito della sua, della nostra, generazione? Fino a un certo punto della nostra vita pensavamo che avremmo potuto avere tutto quello che desideravamo, bastava semplicemente impegnarsi, studiare tanto, fare un buon percorso, seguire le orme dei genitori. Poi a un certo punto, quando eravamo alle superiori, ci ha travolti la crisi del 2008, che ha fatto cadere a pezzi il mondo dei grandi in cui ci apprestavamo a entrare. L'unica cosa che ci rimase a quel punto era la volontà di divertirci. Tanto, comunque, cosa sarebbe cambiato? Ci siamo ritrovati senza un alfabeto per leggere il futuro che sarebbe arrivato. Giacomo potrebbe essere il Martino di una decina di anni fa, poco più che ventenne. Perché ha voluto fotografare quel momento particolare? Ho fotografato un momento a cui sono molto affezionato, una fase in cui la predisposizione all'incoscienza è marcata. A 22-23 anni non hai ancora abbandonato tutto quello che sognavi da ragazzo, non sei ancora entrato in una mentalità adulta. A quell'età lì, hai ancora un rapporto con i genitori che non è consolidato, quasi come un adolescente. Soprattutto se continui a vivere a casa con i tuoi. A me interessava provare a raccontare l’interazione con il contesto familiare. In particolare c’è un focus sui genitori di Jack, che è quello che passa più tempo in casa. Volevo mettere a confronto queste due generazioni vicinissime, eppure lontane. Vicinissime perché in Brianza si mette su famiglia presto e quindi tra padri e figli passano relativamente pochi anni. Lontanissime perché tra noi e i nostri genitori c’è un’enorme distanza per tutti i motivi appena citati. Ha fatto un grande lavoro sulla lingua, ricostruendo un vocabolario giovanile specifico. Immagino un 18enne brianzolo di oggi leggere il mio libro. Direbbe: Ma davvero parlavate così? Il lavoro sulla lingua mi ha molto divertito. Perché io leggo una tonnellata di libri all'anno: non mi sento uno scrittore, sono un tizio che ha scritto un libro, e che però è un grande lettore. La quantità di libri che divoro, però, mi rende consapevole che ci sono tantissimi scrittori che nel tentativo di scimmiottare una lingua più alta falliscono, secondo me, nel trovare quella giusta per raccontare un certo tipo di storia. Io invece credo che ci siano alcune storie, non tutte chiaramente, in cui la voce narrante può fare la differenza. Ho un paio di esempi che mi hanno ispirato. Quali? Ci sono stati due libri fondanti, quando ero ragazzo. Il primo è stato "Trainspotting" e in generale tutte le opere di quella serie firmata da Irvine Welsh, su cui Massimo Bocchiola, il traduttore, fece un lavoro incredibile. E poi un altro libro che aveva, secondo me, centrato completamente la lingua e sto parlando di Fight Club di Chuck Palahniuk. Lui e Welsh sono riusciti a rendere una storia bellissima anche incredibilmente vivida grazie al modo in cui l’hanno raccontata. Ho cercato quindi in “Piacere, Nico” di ripescare la lingua che ascoltavo, più che quella standard, conservando le sbavature e gli errori grammaticali tipici dei ventenni, del ventenne che sono stato. Ha avuto tante vite e fatto tantissimi lavori che terminano in -ista. Qual è quello che le è servito di più per essere scrittore, col senno di poi? Il periodo in call center è stato fondamentale. Il lavoro più faticoso è stato certamente il serramentista, ma non ho mai trovato un lavoro che mi mandasse più ai matti del centralinista. Forse perché sono una persona particolarmente empatica, non ne ho idea, ma ho sofferto così tanto in quella fase che quell’esperienza mi ha aiutato trovare la motivazione per inseguire quello che davvero mi piaceva fare. Così sono approdato a Siena e alla casa editrice Sirio con una felicità enorme ma scontrandomi con guadagni bassi, come tutte le piccole case editrici. E oggi mi sono trovato a scrivere e pubblicare questo libro che chiude un po' il cerchio di quella avventura letteraria. Tuttora per me i libri sono essenziali. Non ho mai dimenticato la mia passione. Gli anni da editore mi hanno reso invece col senno di poi iper competente nel marketing, perché all’epoca dovevo trovare il modo di vendere i libri, e non bastava dire che un testo fosse bello. C’era tanto di più. Parlando con la mia compagna recentemente mi sono reso conto che da quando ero bambino sognavo di scrivere un libro. Ed è per questo che scelsi di frequentare la Holden, quando ancora era una piccola realtà grande quanto un appartamento. Chissà se il prossimo libro la porterà di nuovo nel suo microcosmo. Con "Piacere, Nico" ho sentito questa esigenza, per il futuro vedremo, devo prima trovare qualcosa da dire. Comunque a meno che non mi venga l'idea della vita, e purtroppo temo che non mi verrà, forse il prossimo lo riambienterei in Brianza. Perché trovo che quello sia veramente un mondo di bellezza narrativa rara. Soprattutto perché sono quasi venti anni che vivo lontano e per questo quelle atmosfere hanno conservato un grande fascino narrativo. Il finale di “Piacere, Nico” forse resta aperto anche per un desiderio inconscio di far vivere i miei personaggi in un nuovo capitolo e perché probabilmente dentro di me li ho pensati dall’inizio come seriali. Ma c’è dell’altro. Ci dica. Da bravo Millennial ho sofferto così tanto nel leggere la parola fine sull’ultimo volume di Harry Potter che questo trauma mi ha segnato anche come scrittore.

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Ludovica Passeri